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“I PREDATORI” DI PIETRO CASTELLITTO

Tempo di lettura: 3 minuti

Non era il pomeriggio di cinema di una qualunque domenica autunnale. Non prevedeva la scelta di un film che ne escludesse un altro da guardare in settimana. Né riusciva a estraniarti del tutto dal ribollire di un mondo, fuori, che optava per la chiusura di sale cinematografiche e teatri come fossero spazi, in Italia, a rischio d’assembramento.

Eppure, in extremis e con l’amarezza del caso, ieri ho potuto saggiare il talento del giovane Castellitto, cui Venezia aveva già assegnato il premio Orizzonti per la migliore sceneggiatura prima che il film “I Predatori” approdasse nelle sale.

Eccellente esordio di un figlio d’arte, classe ‘91, che dimostra di avere idee, stoffa e ingegno opportuni per muoversi agevolmente tra i sentieri, irti di ostacoli, del cinema italiano d’autore. 

Lo sguardo di Pietro Castellitto sulla realtà non è certo semplice, ma è onesto. Conoscenza e padronanza del linguaggio cinematografico fanno poi la differenza. Così che su una storia, ben scritta e interamente giocata sul filo della combinazione di piani interscambiabili per eccentricità e disagio, sia stata di fatto congegnata, in una Roma policroma e farneticante, la grande pupazzata del vivere. 

Due famiglie parificate dalle anomalie che sparano alla cieca, indifferenti alla cultura, alla condizione sociale, alle fedi. I Vismara trafficano armi, idolatrano Benito Mussolini e tirano a campare su quel litorale ostiense dal lessico architettonico cangiante, dallo stile in certi segmenti ancora littorio. I Pavone sono una famiglia dell’alta borghesia di Roma: padre medico, madre regista, ove fossero necessarie cornici da Decamerone, e figlio emotivamente instabile. Due quadretti neppure troppo inconsueti se l’occhio di Castellitto, nei panni peraltro di un incredibile Federico Pavone, non inseguisse l’insieme senza mai perdersi nei rivoli di quel particolare su cui invece indugia, di questi tempi, molto minimalismo cinematografico nostrano. Ché va bene tallonare la gente, seguire i suoi passi, guardarne le spalle e provare a indovinarne la direzione. Ma poi arriva il fatidico momento di fissare un volto e poi un altro e un altro ancora, per ricomporre il quadro di quel consorzio umano entro cui tutti si agitano al solo scopo di sopravvivere. 

Lungo l’asse della filosofia nietzschiana e del superomismo di bassa lega si muovono i personaggi di un dramma corale che non opera alcuna distinzione manichea tra buoni o cattivi. L’esistenza sembra arridere a nessuno e ciascun individuo è abitato dall’attitudine, talora disagevole, a sopravvivere. Lo si fa in mille modi diversi e con i mezzi parimenti dissimili che si possiedono. Non v’è spiraglio, non v’è scelta possibile: si è prede di un predatore destino.  

Significativa, nel contesto screziato in cui si mescolano le vite, la scelta d’un cast che non trascura i lineamenti, l’aspetto esteriore di attori che interpretano personaggi quasi caricaturali. Massimo Popolizio e Manuela Mandracchia sono il fedele ritratto della coppia di questi anni: a ciascuno il carico dei propri grattacapi, equamente da dividere le apprensioni per un figlio di cui molto è già sfuggito nel tempo. E Castellitto ha riservato a sé l’elemento più interferente della storia: dai dialoghi di Federico in birreria, dalle sue reazioni lì e altrove, dal suo incedere come dal suo sguardo si intuisce quel malessere che senza preavviso esplode, salvo poi rientrare nei ranghi d’un perbenismo di facciata, calice in mano e una grazia neppure appresa. Giorgio Montanini, Claudio Camilli e Antonio Gerardi, con attrici al seguito altrettanto abili al loro fianco, indossano egregiamente i panni dei trogloditi di borgata. Si aggiunga agli attori fin qui menzionati tutto un cast avvedutamente scelto e che molto ha contribuito alla riuscita di un’opera che si ergeva sulla complessità di un insieme da ricostruire. 

Il corto circuito è generato inconsapevolmente da un venditore di orologi (Vinicio Marchioni) che estorce mille euro alla povera Ines (Marzia Ubaldi). Il resto è un coacervo di coincidenze che qualcuno denominerebbe destino, è questo beffardo nonsense che si chiama realtà e dentro cui tutti presto o tardi anneghiamo. Gli universi ove dimorano miseria e nobiltà non collidono più: la tragedia non conosce scala sociale. Non v’è modo di sovvertire le regole di un gioco in cui si perde sempre. La felicità è solo una meta irraggiungibile. La gioia di un momento e “Un, deux, trois” si finisce col vomitare tutta quanta la repulsione per la vita. 

Lungi dagli espedienti narrativi che ubbidiscano alla denuncia sociale, Pietro Castellitto sceglie la strada di un realismo per molti versi scientifico, cui stilisticamente si appresta virando tutte le volte che può su un grottesco filiforme e sorvegliato che smorza i toni della veridicità più indigesta. Il coraggio di chi elude educatamente la catastrofe e alle sciagure consacra, semmai, una sobria e costumata risata. 

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