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“MEDIA A SOSTEGNO DELL’ARTE? ACQUISTINO GLI SPETTACOLI”

Tempo di lettura: 5 minuti

In un momento così difficile il ruolo delle emittenti può essere determinante per sostenere il mondo della cultura e dello spettacolo, già duramente colpito dalla prima fase della pandemia. Ne abbiamo parlato con Nicolas Ballario, speaker radiofonico su Rai Radio1 e conduttore televisivo su SkyArte, nonché artista a 360°, giornalista ma soprattutto critico d’arte e curatore, con preziose collaborazioni di artisti del calibro di Oliviero Toscani.

Il Ministro Franceschini ha fatto un appello ai media affinché si mettano a disposizione del mondo dello spettacolo dal vivo, quindi danza, teatro e non solo, per aiutarli a superare questo momento di grave crisi. Tu ed il tuo programma “Te la do io l’arte” in onda su Radio1 avete risposto presente. Che contributo pensi possano dare, quindi, i media, al mondo dello spettacolo dal vivo che sta vivendo una delle pagine più brutte – se non la più brutta – dal dopoguerra ad oggi?
«Partiamo da quello che ha detto il ministro. Non voglio ovviamente entrare nelle decisioni dell’esecutivo, devo però dire che essendo andato a teatro negli ultimi giorni, proprio sabato sera scorso, e non mi sono mai sentito più al sicuro come in un posto del genere, dove i controlli sono oltremodo scrupolosi. Io credo che i media possano dare, come contributo, proprio ciò che ha chiesto Franceschini, cioè che i media in generale, ma soprattutto la Rai che è servizio pubblico, comprino gli spettacoli. Io posso mettere a
disposizione la mia trasmissione, e come me tanti colleghi, ma non basta. Non si vive di sola visibilità: quello che va fatto, e voglio sottolinearlo cento volte, è che i media ed il servizio pubblico innanzitutto acquistino
gli spettacoli, che varino un budget straordinario per far fronte alle spese, e trasformare questo mese terribile nel mese della cultura. È l’unico sostegno vero che i media, a mio avviso, possono dare».
La speranza, ovviamente, è che non vengano acquistate solo le grandi produzioni, ma anche quelle medio-piccole di altissima qualità
«Hai perfettamente ragione. Ma credo che in Italia ci sia un apparato ed una struttura culturale che potrebbe veramente mettersi a disposizione. Io sono il primo che si mette a disposizione, se serve, nella
loro individuazione. E basterebbe veramente poco. Dopo l’appello, infatti, che ho lanciato sui miei social, e che è stato sposato e ricondiviso immediatamente dalla Rai ed anche da Notizie di Spettacolo, mi sono
arrivate decine e centinaia di proposte di artisti di tutta Italia. Ciò dimostra che non è difficile chiamare a raccolta i produttori e gli artisti medio piccoli, e che quello che ti dicevo prima sarebbe veramente grandioso: vedere tutti i media – dai canali news allo sport ai generici – rinunciare a qualcosa di magari superfluo per dare spazio alla voce ed alle storie dello spettacolo dal vivo».
Molti, infatti, si stanno iniziando un po’ a reinventare ed a pensare a qualcosa di nuovo per far fronte a questo momento terribile.
«Pensa se le emittenti sportive, ad esempio, si mettessero a fare teatro, a raccontare le storie dello sport attraverso il teatro. La cultura è ovunque, non è solo quella di regime. La cosa incredibile del teatro, così come l’arte, è che si occupa di ogni ambito umano».
Secondo te come si evolverà la situazione generale? E soprattutto, come cambierà e come sta cambiando il mondo dell’arte, sia nel suo racconto che nella sua produzione e sia anche per chi ne usufruisce, in
seguito a questa pandemia globale?

«Temo non cambierà nulla in meglio, su questo sono un po’ pessimista. Certo è che, tutto questo periodo, ci ha fatto scoprire che il rapporto esperienziale diretto con l’arte rimane la cosa più importante, ma non è
l’unica. Quindi quello che spero rimanga dopo tutto questo caos, è almeno la capacità del settore culturale di fare squadra e di scendere in campo in maniera unitaria. Troppo spesso, come operatori culturali,
abbiamo un po’ la paura di sporcarci le mani, di scendere in un corpo a corpo culturale con i più refrattari. Dobbiamo cercare di andare oltre allo zoccolo duro del nostro pubblico e cercare di allargarci parlando a quante più persone possibile. In questo sì che i media sono fondamentali».
Sarebbero utili anche nel far passare il messaggio che l’arte non è solo una passione, ma è un vero e proprio lavoro. Un concetto ben diverso da quello espresso dal governo inglese con la sua ultima campagna promozionale rivolta agli artisti affinché si “cimentino” in altre carriere.
«Quella inglese è davvero una cosa aberrante. Come può la patria di Shakespeare permettersi di dire una cosa del genere? Ma se non interviene la politica, strutturalmente, anche in Italia rischiamo di finire così. In
Italia una cosa del genere non la dicono perché il nostro è visto globalmente come un paese fondato sulla cultura. Io vorrei sapere perché in Italia, dove lo Spettacolo dal vivo è letteralmente in ginocchio, non intervengono in maniera forte le istituzioni. Perché non stanziano un fondo speciale affinché le istituzioni sostengano i media nell’impresa di diffondere lo spettacolo dal vivo? Si dovrebbe prendere esempio dalla regione Emilia Romagna che ha messo in campo un budget per acquistare opere di giovani artisti. Questo dovrebbe fare Franceschini: invitare le altre regioni a seguire l’azione virtuosa della regione emiliana».
Nicolas, tu hai fatto dell’arte la tua ragione di vita, e come te tantissimi altri artisti. Durante il lockdown hai avuto modo di ascoltare tantissime storie di artisti provenienti da tutto il
panorama artistico contemporaneo. Quale storia ti ha colpito di più?

«Mi hanno colpito tante, ma per praticità voglio raccontarti una delle ultime, che è forse la più emblematica. Ho ricevuto un video di un ragazzo di trent’anni di Castelfranco Veneto, che si chiama Massimo Scola, e che mi ha molto colpito. In buona sostanza dice che quando qualcuno gli chiede che lavoro faccia, lui si vergogna a rispondere che per lavoro, nella vita, fa teatro. Quando uno dice che fa teatro per campare, viene guardato come un fannullone, come quasi un cretino. È mortificante. Come fa ad essere civile un paese in cui un ragazzo di trent’anni si deve vergognare di dire che fa teatro?»
È sicuramente un fallimento generazionale.
«Ed è proprio questa la cosa che mi fa più rabbia. Una rabbia generazionale, appunto. Io ho 36 anni, vivo e lavoro con l’arte, in questo momento storico ho l’umore a terra, ma mi ritengo fortunato. Faccio radio, televisione, ho la possibilità di scrivere su un grande giornale come il Rolling Stone. Ma se quest’anno perfino io, che sono così fortunato, mi sono visto annullare una serie di mostre e di attività che ho organizzato in tutta Italia, non oso immaginare gli altri che già prima campavano a fatica. Quello che non sopporto di questo periodo sono tutti quelli della generazione nata a cavallo tra gli anni 40 e gli anni 50, che si sente tanto rivoluzionaria per le stagioni che ha passato, soprattutto negli anni 60 e 70, e vuole venire ad insegnare a noi come si fanno i trentenni oggi. Ai giovani non basta dire di rimboccarsi le maniche, che i più audaci ce la fanno, che è nei momenti di crisi che si devono mostrare gli attributi. Io vorrei dire a queste persone, che poi sono quelle che occupano tutte le posizioni apicali nell’ambito del potere in Italia, che la smettessero di dare lezioni e che si prodigassero affinché si possano creare realmente le opportunità, come largamente loro hanno avuto. La nostra è una generazione dove tutto, ma proprio tutto, è andato a quel paese. Dalla crisi finanziaria del 2008 alla pandemia globale quest’oggi. Sono stufo degli Eschimesi che spiegano agli abitanti del Congo come comportarsi durante la calura».

Scritto da

Lavoro nel campo della comunicazione e mi occupo di teatro come regista e attore e di radio come speaker e conduttore. Ho scritto e scrivo su numerose testate.

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