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CHI HA UCCISO MIO PADRE IN SCENA AL TEATRO DEL SOLE

Tempo di lettura: 4 minuti

Dopo il debutto a VIE Festival 2020, lo spettacolo, coprodotto da ERT, Chi ha ucciso mio padre, dal libro di Édouard Louis, con la regia di Daria Deflorian e Antonio Tagliarinie in scena Francesco Alberici, arriva sul palcoscenico del Teatro Arena del Sole da giovedì 17 a domenica 20 giugno.

Per la prima volta Deflorian/Tagliarini si sono affidati a un testo non scritto da loro, ma da un autore con cui condividono affinità importanti, a cominciare dalla relazione tra vita e finzione: il giovane scrittore francese Édouard Louis, considerato un vero e proprio caso letterario, e pubblicato in Italia dalla casa editrice Bompiani.

Il racconto di un padre e di un figlio dentro una classe operaia ormai priva della propria identità e asservita totalmente al pensiero liberista. Un figlio omosessuale e un padre ossessionato dal maschile e dalla consapevolezza di essere a sua volta un emarginato, un dominato, un perdente, proprio come le persone che più odia e a chi non vorrebbe mai assomigliare, immigrati, effemminati, donne.

Quello di Louis è uno sguardo non più rabbioso, ma riconciliato verso i cattivi padri, raccontato con un’intimità che continuamente si apre alla Storia e al presente: un’esperienza individuale che si fa collettiva, in un dialogo per voce sola.

«Il ’68 i padri li voleva uccidere – così si diceva. Quarant’anni dopo, nelle pagine di un testo dettato, sono parole dello stesso Édouard Louis, non dalle esigenze della letteratura, ma da quelle della necessità e dell’urgenza – da quelle del fuoco – uno scrittore di 26 anni si mette in caccia degli assassini del padre e li scopre tra i dominanti, ma soprattutto rimette all’ordine del giorno della scrittura le vite di cui nessuno vuole più sentir parlare, le nude vite di coloro a cui il potere toglie qualunque protezione. Il miracolo è che questo atto d’accusa non rende meno toccante la kafkiana “lettera al padre” in cui il figlio dà ripetutamente del tu all’uomo che per anni gli ha negato ogni confronto, eludendo in tal modo il confronto con sé stesso. Cercandolo e trovandolo dove lui non sa nemmeno di essere, nelle profondità di una vocazione subito espropriata dalle dure leggi di una condizione sociale che da sempre è anche un’ideologia, un aspetto della dominazione. Che sia la parola rivoluzione – detta dal padre – l’ultima parola del testo può far riflettere: una fortissima inquietudine corrode il cuore della Francia profonda (e non solo).

Ma è più interessante chiedersi cosa è accaduto nel frattempo. E cosa è accaduto Louis lo racconta, quasi fiabescamente in una pagina di questo dialogo per voce sola: «Un giorno, in autunno – scrive – erano stati aumentati di quasi cento euro gli aiuti per il nuovo anno scolastico. Erano versati ogni anno alle famiglie per aiutarle a comprare la cancelleria, i quaderni, le cartelle. Eri pazzo di gioia, avevi gridato in soggiorno: andiamo al mare, e siamo andati in sei nella nostra macchina da cinque…Tutto il giorno è stato una festa. Non ho mai visto le famiglie che hanno tutto andare al mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica per loro non cambia quasi nulla».

La vera differenza, in questo scarno e incisivo racconto di un padre e di un figlio rispetto a quelli che si sono succeduti nella storia della letteratura, sta proprio nella scena in cui si svolge: dentro una classe operaia ormai condannata all’obsolescenza dalla voga liberista.

C’è una premessa, una definizione che Louis versa sul suo racconto come un liquido di contrasto che lo fa cambiare di colore: alla domanda su cosa significhi per lei la parola razzismo – scrive colui che anche da scrittore resta un allievo spirituale della sociologia di Pierre Bourdieu – l’intellettuale americana Ruth Gilmore risponde che il razzismo «è l’esposizione di certe popolazioni a una morte prematura».

È una definizione che nel seguito del racconto è destinata a esplodere come una carica a rilascio lento, con una violenza di denuncia e con una forza vendicatrice a cui la letteratura sembra aver da tempo rinunciato: il padre viene consegnato a una morte prematura non da un precario sé stesso che non ha mai avuto la possibilità di illuminare, ma dalle leggi e dalle regole di un potere che ha smesso di guardare in faccia le persone che espelle quando sono di troppo.

Scrittore che visibilmente guarda al teatro, Édouard Louis diventa per noi il logico passaggio verso una drammaturgia performativa che guarda sempre di più alla letteratura: abituati a portare in scena le nostre parole e il nostro vissuto – distillati attraverso il lungo percorso di prove – per la prima volta abbiamo scelto di affidarci al testo di un altro con cui condividiamo alcune affinità fondamentali. A cominciare, ovviamente, dalla relazione tra vita e finzione. E per compiere un’altra tappa nella ricerca che da tempo ci accompagna sui legami tra figura e sfondo, tra esperienza singolare ed esperienza collettiva. Scegliendo Francesco Alberici come interprete abbiamo cercato la massima distanza possibile dal mimetismo con la voce che in Chi ha ucciso mio padre parla in prima persona. Non è nella somiglianza che cerchiamo un piano di verità tra questa storia e il pubblico, ma nella possibilità, aperta dalla didascalia iniziale del testo di raccontare la storia di tutti noi attraverso una storia di uno solo. La nostra regia e l’interpretazione di Francesco Alberici non sono altro che lo sviluppo ulteriore di un cantiere dove da molto tempo lavoriamo insieme».

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