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“ABBIAMO BISOGNO DI REALTÀ, OGGI ANCOR PIÙ DI PRIMA” DIALOGO CON FEDERICA DI GIACOMO

Tempo di lettura: 4 minuti

Intervista alla regista del premiato docu film “Liberami”, disponibile on demand sulla piattaforma streaming di I Wonder Pictures “IWONDERFULL”, sul ruolo che hanno oggi i documentari di creazione, su come sta cambiando il loro approccio con il pubblico e su come cambieranno a seguito della pandemia di Coronavirus.

Come mai ha deciso di dedicarsi al cinema documentaristico?

Io provengo dal teatro danza e dall’antropologia, per questo reputo il documentario una forma cinematografica libera. Dirigere un documentario permette di avere ampi spazi per creare, un’organizzazione tra troupe e macchinari non mastodontica e soprattutto la possibilità di conoscere il mondo. C’è sempre un processo di conoscenza all’interno dei documentari, a partire dalla voglia di conoscenza di altro da sé stessi, senza la quale non potrebbe nascere un documentario.

Quali sono i processi che portano alla nascita di un suo documentario?

Parto da storie che vengo a conoscere, che si legano a ciò che mi interessa e mi danno la possibilità di una visione del mondo. I temi che scelgo sono sociali ma visionari. I miei film sono corali e presentano tanti personaggi perché mi interessa raccontare un mondo dall’interno, compio un’osservazione immersiva per riportare la realtà oggettiva. Ne Il lato grottesco della vita, il mio primo film, racconto dei Sassi di Matera – luogo che ho scoperto essere usato come avamposto filmico per girare scene ambientate in Israele – e di chi vive lì come guida turistica abusiva. Persone che per ore portavano in giro turisti dicendo cose inventate sui luoghi che visitano. Si abbatte il confine tra logica e creatività, non c’è più nessun limite tra vero e falso, e non risulta più importante. Ciò che mi interessava è stato non solo il lavoro dei protagonisti del documentario ma le altre dimensioni attorno a loro: il turismo, anche abusivo, l’estremo isolamento, la capacità di inventarsi una professione. Per me una storia per essere raccontata deve avere una profondità a più livelli.

Quali sono i registi che più la hanno ispirata?

Considero Frederick Wiseman un maestro assoluto, la sua capacità di unire equilibrio e poesia senza bisogno di ricorrere alla necessità di documentare le esperienze in modo oggettivo. Ciprì e Maresco per il loro punto di vista molto forte. Jonas Mekas, Peter Mettler per la loro visione e lo stile, avendo il coraggio di fare ciò che vuole. Werner Herzog è un altro dei miei maestri assoluti, un antropologo virtuale dove addirittura la musica nei suoi documentari esprime un sentimento personale. Non è classico. Il mio stile si rifà al loro: cerco di essere il meno classica possibile, vado più verso il cinema piuttosto che verso il reportage. Diversi anni fa il documentario era molto più simile al cinema, basti pensare a Pier Paolo Pasolini o Ermanno Olmi che documentavano le loro visioni e idee personali attraverso un linguaggio cinematografico. In tempi più recenti, specialmente in Italia, i docu film sono stati reputati come delle inchieste o delle denunce, dimenticando la loro essenza di documentari di creazione.

Come ha influito la pandemia sul cinema documentaristico? Pensa che questa reclusione forzata abbia aumentato il nostro interesse per le storie del mondo?

Questo momento storico è molto interessante e positivo a livello creativo, ci saranno molte nuove storie da raccontare visto che la cultura è stata posta in secondo piano per molto tempo. Una crisi rimette in discussione la struttura della società e della quotidianità, e molti cambiamenti sottintendono molte storie. Il resto del mondo si sta rendendo conto del valore del documentario, la cui produzione durante la pandemia è facilitata vista la mancanza di troupe enormi o la possibilità di registrare con un telefono, e dei contenuti audiovisivi in generale. Abbiamo accesso al mondo solo tramite film o giornalismo, ci rendiamo conto che la cronaca ha un limite perché non ci porta la conoscenza e quindi serve vedere la realtà esterna attraverso le storie del mondo. Abbiamo bisogno di realtà, oggi ancor più di prima, e il documentario è quel contenuto per veicolare la conoscenza della realtà e dei periodi storici che avevamo scordato. Per quanto riguarda la mia esperienza pandemica, ho vissuto questo periodo relativamente bene visto che ho passato molto del mio tempo a lavorare da remoto per montare il mio prossimo film, Il palazzo.

Negli ultimi anni grazie anche alle piattaforme streaming c’è stata una notevole distribuzione e interesse per i documentari, cosa ne pensa lei delle varie piattaforme che, a detta di molti, stanno rovinando il cinema?

Le piattaforme streaming sono un ottimo metodo di diffusione di tutti quei prodotti che non ottengono facilmente accesso alle sale cinematografiche. Stiamo andando verso una maggiore consapevolezza di molti network, quindi ci sarà molta più distribuzione per i documentari e questo è un aspetto indubbiamente positivo. Il problema delle piattaforme sarà riuscire a portare in streaming documentari cinematografici. Al momento la maggior parte dei docu film presenti in commercio sono molto “americani”, ossia estremamente votati alla denuncia e all’inchiesta; serve più poesia, il documentario non è noioso, può emozionare e far appassionare esattamente come un film di finzione, serve farlo capire al grande pubblico. Bisogna fare formazione per istruire su cosa sia il documentario di creazione, e ben presto lo capiremo perché c’è bisogno di uno scambio di visioni, considerata la riduzione dello scambio reale a causa della pandemia. Un’adeguata formazione sull’argomento non basta però senza una distribuzione capillare del documentario di creazione e, al momento, la giusta distribuzione è garantita principalmente dalle piattaforme streaming. A riprova di quanto detto prima, la distribuzione al di fuori dell’on demand il mio ultimo film, Liberami, è stata estremamente limitata e, addirittura, superiore all’estero rispetto che al Bel Paese: lo hanno proiettato in 20 sale cinema in Giappone e 8 in Italia.

Che rapporto hanno solitamente i registi di documentari con i produttori cinematografici?

Per moltissimo tempo il documentario è stato ritenuto un prodotto poco interessante rispetto ai film di finzione, ciò lo dimostra anche il fatto che i budget stanziati per questi ultimi erano mediamente dieci volte superiori. Grazie a concorsi come il Premio Franco Solinas per la scrittura stanno nascendo sempre più strutture di finanziamento di tutti i passaggi necessari alla nascita di un documentario, come la ricerca del materiale, dei macchinari e della troupe. Oggi sempre più produttori si stanno rendendo conto che conviene investire una cifra congrua nei docu film, non pari al film di finzione, ma comunque più alta di prima. Il merito di ciò è dovuto all’enorme successo che hanno riscosso molti docu film italiani nei festival stranieri, che ha fatto capire ai produttori e distributori l’importanza e l’arte dei documentari.

Scritto da

Pisano di nascita e romano d'adozione. Da diversi anni ho sviluppato una grande passione per i film, il cinema e tutto ciò che si lega a esso, dalle origini con Méliès, all'Espressionismo tedesco, fino alla contemporaneità.

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