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EREDITA’ ED ARMONIE TIPICHE NAPOLETANE, UN VIAGGIO LUNGO IL MEDITERRANEO

Tempo di lettura: 7 minuti

Dopo A chi tene ’o core, uscito il 20 gennaio scorso, molto apprezzato da pubblico e critica, il 19 febbraio esce Tramonto, secondo singolo del nuovo progetto musicale di Guido Maria Grillo (AM Productions). Voce raffinata, testi ricercati, musica densa di contaminazioni per un’ispirazione artistica sempre alla ricerca di percorsi sperimentali e innovativi. Tre gli album pubblicati, vincitore del Premio Bruno Lauzi 2017, ha collaborato tra gli altri con Levante e Paolo Benvegnù. Per Notizie di Spettacolo un’anteprima esclusiva del videoclip “Tramonto”. Con Guido Maria Grillo parliamo di musica, progetti e sentimenti.

Una sorpresa questo tuo nuovo percorso tra dialetto napoletano e ritmi mediterranei. Come nasce?

È stata una sorta di folgorazione; pur essendo un grande appassionato della canzone napoletana classica, del suo lirismo e dell’intrinseca malinconia, mai avevo usato il dialetto, nella scrittura delle mie canzoni. Un anno fa, percepivo il bisogno di ricollocarmi in una contemporaneità da cui stavo scivolando via, avendo un’attitudine alla musica piuttosto divergente dal contesto. Sapevo di non dover tradire la mia indole, ma anche che fosse necessario ritagliarmi uno spazio nuovo nel presente, tanto affetto da derivatismo e coazione a ripetere, io credo. Pensai che, non essendoci nulla di più originale e personale della propria storia, far ricorso alle radici per dialogare con la contemporaneità, facendo tesoro dell’esperienza, potesse essere una maniera intelligente per esprimere me stesso, in questo luogo e in questo tempo, rifuggendo mode e conformismi. Quando, nel mio percorso a ritroso, iniziai a maneggiare il napoletano, mi si spalancò dinanzi un mondo meravigliosamente nuovo. Il dialetto era perfetto per la mia vocalità, per le armonie, per le mie contorsioni melodiche. Era la lingua delle radici, raccontava la mia storia, eppure assecondava il mio sguardo contemporaneo sul mondo. Ripeto spesso che fu come ritrovare, nei meandri del subconscio, un baule colmo di parole che mi sono sempre appartenute, eppure trascuravo. Parole che sono trasposizione fedele della mia sensibilità nella forma precisa di una lingua. I dialetti e le musiche del sud sono geneticamente ibridi perché hanno storie millenarie di incontri, contaminazioni, reciproche ricchezze semantiche e timbriche. Ed ecco, allora, che l’utilizzo del dialetto napoletano, e di certe tipiche armonie, anch’esse eredi di antichi abbracci tra culture, mi hanno trascinato al largo, fino a lambire le sponde al di là del Mediterraneo. La musica potrebbe insegnare la meraviglia della contaminazione e dell’integrazione a noi uomini e donne del 21° secolo, tanto incapaci di cogliere le opportunità e la ricchezza dell’incontro tra culture. Il risultato è qualcosa di totalmente nuovo, per me, in cui credo di essere, comunque, riconoscibile; mi piace pensare di essermi evoluto rimanendo me stesso e che questa sia “canzone napoletana classico-contemporanea”, concetto per nulla ossimorico.

Parliamo di Tramonto.

Una di quelle canzoni che potrebbero non finire mai perché sono flusso in cui l’ascoltatore deve immettersi e abbandonarsi. Credo mi dia questa impressione per la melodia rassicurante, quasi confidenziale, su cui poggia un testo universale, che testimonia vita vissuta e coscienza dell’esistere. Il tramonto è la rappresentazione del confine labile tra tragico e sublime, tra la suprema bellezza dell’ultimo abbraccio del giorno al mondo e la solitudine della notte, il buio sulla terra e nella coscienza. E, ogni giorno, la vita torna in bilico su quel confine labile, a ricordarci che è solo un attimo, un particolare, un impercettibile cambio di prospettiva a farci sentire al centro dell’immensità della luce o un minuscolo puntino in mezzo al fuoco, prima della notte.

Anteprima di “Tramonto

Anche questo singolo esce insieme a un video interamente realizzato da te. Cosa cerchi in riferimento alle tue canzoni dentro le immagini? 

Il videoclip di Tramonto è un lungo piano sequenza in slowmotion in cui è protagonista la mia famiglia, nel bel mezzo di una tormenta di neve, in città. Eravamo usciti di casa per camminare in quel candore accecante e, a un certo punto, mi ha incuriosito una scena. Ho impugnato lo smartphone e ho colto la mia famiglia in un momento di sospensione della realtà e meraviglia, immersi in quello scenario insolito. Racconta, in punta di piedi, il ciclo della vita e lo stupore, l’alienazione cui può condurre la Bellezza. Tutto qui, lascia scorrere la musica e credo l’accompagni con la poesia semplice di una scena intima e delicata. Il videoclip di A chi tene ’o core è stato girato in Calabria, in luoghi di sbarchi di migranti, lidi di speranza nel futuro, ma anche di dramma e disperazione, sulla Costa dei Gelsomimi, nei territori di Riace e limitrofi, affacciati sul Mar Jonio. Mi è sembrata l’ambientazione adatta ad una canzone che parla di Resistenza individuale e di Libertà.

Dopo queste anticipazioni, a marzo uscirà l’Ep, che tipo di disco è? 

È un breve disco, 5 canzoni, che conferma quanto preannunciato dai due singoli che lo anticipano. In ogni brano, italiano e dialetto napoletano dialogano e si contaminano, l’atmosfera è sognante e, a tratti, disperata, convivono suggestioni della canzone napoletana classica, e delle musiche del sud del mondo, con un approccio contemporaneo alla musica cantautorale, così come l’elettronica minimale con il linguaggio del pop, anche se non propriamente italico, per quel che riguarda arrangiamenti e sonorità. Mi sono lasciato suggestionare dal fascino del Mediterraneo, dai colori del deserto e dalla magia delle melodie arabe. È un lavoro che mi rappresenta pienamente, pur essendo piuttosto diverso dalle mie precedenti produzioni. Il dialetto mi ha offerto nuove possibilità senza snaturarmi, lasciando che l’approccio alla scrittura s’arricchisse di elementi inediti senza diventare altro da sé. Credo di aver raggiunto un equilibrio tra origine ed esperienza e ne sono molto soddisfatto. L’intero Ep è scritto, arrangiato e prodotto da me medesimo, pubblicato grazie alla rinnovata collaborazione con AM Productions, etichetta bolognese che già rilasciò i miei primi due album, e distribuito sulle maggiori piattaforme digitali da Believe Distribution.

Come influiscono sulla tua ispirazione musicale questo tempo complesso, imprevisto?

La musica, come qualsiasi espressione artistica, dovrebbe essere specchio dei tempi o, almeno, testimone, secondo il proprio linguaggio. Se ciò è vero, è, però, altrettanto vero che questi tempi, affetti da caducità prematura, cioè da una incontrollata velocità tesa al nulla, rendono, il più delle volte, le testimonianze altrettanto impalpabili, siano esse canzoni o altre forme di impegno culturale ed artistico. È in questa società liquida – come la definiva Bauman –, cioè tanto rapida da impedire qualsiasi storicizzazione e sedimentazione di riferimenti, che proliferano le mode, i trend, le meteore, dunque, tutto ciò che brilla per un limitatissimo lasso di tempo. Questo genera in me profonda angoscia, a causa della mia indole naturalmente tendente all’infinitezza. Scrivo canzoni con l’auspicio che rimangano, che diventino bagaglio e non evanescente sollazzo per qualcuno. E, allora, in questo tempo, in cui conta apparire, anche a costo di esser meteore, a prescindere dalla sostanza, che garantirebbe più lunga vita, sono particolarmente a disagio, come uomo e come “addetto ai lavori”. Le mie canzoni lo sono quanto me e non si ascrivono alle logiche del loro tempo, pur essendone testimoni, attraverso l’emotività con cui lo vivono. 

Quanto cambierà il mondo della musica dopo il Covid?

Qualche mese fa, ti avrei risposto che nulla sarebbe cambiato, che presto saremmo tornati alla normalità, nel bene e nel male. Oggi non ne sono più convinto. Temo che il colpo inferto alla già precaria condizione strutturale del mondo della musica italiana (etichette, live club, teatri, agenzie, promoter) possa essere davvero mortale. Vivo la musica da molti anni e conosco discretamente bene assetti e dinamiche. So che la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori sopravviveva con difficoltà ben prima del Covid, per ragioni che attengono alla cultura e alla carente alfabetizzazione musicale di questo Paese. Temo che, in assenza di una sana presa di coscienza, dall’alto, della necessità di ricostruire un tessuto culturale e strutturale intorno alla musica e allo spettacolo dal vivo, che tenga conto di ogni realtà, sin dal basso, dalla parte degli artisti quanto da quella degli organizzatori, saranno pochi i fili d’erba in grado di restare in piedi. Questo Paese ha tradito la propria storia; avrebbe potuto primeggiare e, invece, è colpevolmente indietro in materia di educazione all’arte, alla musica e alla cultura. È una colpa imperdonabile, oltre che ingiustificata, perché non corrispondente a significativi progressi in ambiti tecnici, economici o tecnologici, ad esempio. Si è semplicemente seduto e, oggi, ne paghiamo mestamente le conseguenze. Mi capita spesso di chiedermi che musicista sarei stato negli anni ’60 o ’70, è una maniera originale di sognare.

Hai una parentela con il grande Totò, cosa rappresenta per te questo artista straordinario?

Mia madre era una De Curtis e tutti, nella sua famiglia, avevano dimestichezza con le arti e con la musica. Mio nonno era un tenore e violinista, una zia insegnante di pianoforte, uno zio era pittore e un altro tra i massimi conoscitori di Giacomo Puccini, mentre mia madre era docente di Storia dell’Arte. Ho respirato quell’aria, da bambino, trascorrendo lunghi pomeriggi nell’interminabile corridoio di quella casa, ricolmo di quadri, che riverberava il suono di un piano o un’aria d’Opera. È stato ciò a influenzare la mia formazione, più che la parentela con Totò, di cui si è sempre parlato, in casa, pur essendo la sua vita avvolta da leggenda, in quanto nato da una relazione clandestina. Era consuetudine, a quei tempi –Totò nacque nel 1898 –, specialmente in certi contesti, ammantare lo scandalo per alterarne la narrazione. Mia madre ricordava di quando si presentò a casa un suo assistente, incaricato di fare la conoscenza e portare i saluti a quei parenti, che Totò non aveva ancora conosciuto. Mio nonno s’accordò per un incontro che non avvenne mai perché, di lì a poco, il “principe” De Curtis sarebbe scomparso.

Dove ti porterà la tua prossima ispirazione musicale?

Il dialetto napoletano, utilizzato come amplificatore semantico ed emotivo, in continuo dialogo con l’italiano, mi ha offerto soluzioni e possibilità che ignoravo del tutto. Mi ha consentito di arricchire ancor più le parole e le melodie di espressività e drammaticità, un vantaggio determinante per la mia scrittura. È lingua di musica, teatro, cinema, è geneticamente drammatico, nel suono, nella musicalità, nella caratura della sua espressione. Credo di aver individuato una rotta capace di condurmi all’esplorazione, come, in qualche modo, ha già fatto, portandomi a lambire altre sponde del Mediterraneo. Ricerca, esplorazione, evoluzione stilistica sono, io credo, imprescindibili, in qualsiasi ambito artistico. La ripetizione corrisponde alla produzione in serie, esattamente antipodica rispetto al concetto stesso di Arte. In questo viaggio appena cominciato, non intendo ammainare le vele, anzi, voglio prendere il vento e andare, magari in direzione di una più approfondita esperienza nordafricana o medio-orientale, senza tradire il desiderio di vivere la contemporaneità. È, in fondo, quel che ho iniziato a fare con queste canzoni, esplorare territori antichi, dialogando continuamente con il presente, plasmando il mio approccio contemporaneo alla musica.

Laureata in Scienze Politiche, giornalista pubblicista, si occupa di comunicazione culturale e sociale. Collabora con le redazioni di testate giornalistiche, televisive e case editrici. Organizza e conduce eventi culturali. Cura il blog "Connessioni" e il blog collettivo "Apostrofi a Sud".

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