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FRANCESCO COLELLA: IL MIO È IL MESTIERE PIÙ BELLO DEL MONDO.

Tempo di lettura: 4 minuti

L’appello dell’attore italiano Francesco Colella, lanciato dal palcoscenico del Teatro Argentina il 25 ottobre scorso, quando già era stato firmato il Dpcm che avrebbe chiuso cinema e teatri, ha avuto una larga eco mediatica. Il settore dello spettacolo dal vivo, dopo il recente e dispendioso adeguamento ai protocolli anti-Covid, avrebbe ricominciato a soffrire. E oggi soffre ancora. Notizie di Spettacolo ha raggiunto Francesco Colella per riflettere insieme a lui sull’utilità dell’arte e dei luoghi deputati ad accoglierla.

“La finestra ai nostri sogni” cui alludevi a ottobre pare sia ancora chiusa. Quali, a tuo avviso, le conseguenze per i lavoratori dello spettacolo e per la società in generale?

Posso esprimere le mie preoccupazioni da attore e al contempo da individuo. Una società che chiude le finestre al teatro, al cinema, all’arte in generale finisce per addormentarsi. E quando lo spirito si addormenta non riconosce più ciò che lo nutre e gli fa bene, si dimentica finanche di sé e degli altri. Come quando si ama: si ama da svegli, da lucidi. Ci vuole presenza e responsabilità per amare, altrimenti ci si inaridisce, si diffida dell’altro.

Se chiudi le finestre dell’arte e ti addormenti sei peraltro manipolabile. Le masse acritiche si governano meglio.

Hai parlato, nella medesima occasione, di centri di aggregazione civile. Senza i luoghi della cultura si amplifica, dunque, quel senso di isolamento con il quale oggi l’individuo è più che mai costretto a fare i conti?

È importante per l’individuo eludere l’isolamento e lo è altrettanto per le categorie. Penso agli attori. Per la prima volta, nella circostanza dell’emergenza, ci siamo uniti. Sono sorte varie associazioni di categoria. Io appartengo, per esempio, a UNITA (Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo). È fondamentale che finalmente ci si riconosca come categoria, evitare appunto l’isolamento, rappresentare certe istanze e farlo insieme.

Quanto a centri di aggregazione civile, a mio avviso indispensabili, credo si sia fatto confusione con i pericoli di assembramento. Secondo il Ministro Franceschini gli assembramenti si sarebbero verificati nei mezzi di trasporto pubblico che avrebbero condotto la gente nei cinema, nei teatri. A me questa supposizione fa sorridere: non immagino proprio grandi masse di spettatori che si accalcano sui mezzi pubblici per andare al cinema o a teatro.

Gli interventi riguardanti lo spettacolo adottati per fronteggiare l’emergenza credi siano stati adeguati alle reali necessità del comparto?

Importanti i ristori, sollecitati peraltro dalle associazioni di categoria. Va tuttavia mantenuto vivo il confronto, il tavolo delle trattative per una strategia futura che al momento non c’è. Si possono fare errori ovviamente, specie perché non sempre si è concordi sulle strade da percorrere all’interno delle associazioni, ma guai a palesare cattive intenzioni. Quello non possiamo permettercele.

Oltre le pratiche essenzialmente emergenziali, reputi si debba rivedere la normativa che fino a oggi ha regolato in Italia lo spettacolo dal vivo?

Il coronavirus ha solo messo in risalto e amplificato problemi già esistenti. Il comparto dello spettacolo dal vivo soffriva anche prima dell’emergenza. Per questo bisogna che si siedano a un tavolo istituzioni e associazioni di categoria, si siedano e dialoghino.  

Guardiamo alla riapertura. Sarà più complicato, in un clima ansiogeno come quello attuale, riconquistare il pubblico?

Non sarà più complicato. Il problema non è riconquistare il pubblico, ma accoglierlo e farlo sentire come sempre al sicuro.
Oggi, forse più di ieri, la gente ha nervi scoperti e necessità di nuove occasioni per ascoltare storie, respirare teatro, cultura in generale.

Lo streaming è un mezzo d’emergenza. Guai a pensare che il progresso tecnologico possa compensare la solitudine. Si pensa erroneamente che l’arte, la cultura siano beni vetusti, quasi da museo o, peggio, li si considera accessori, superflui. Del resto si può tranquillamente vivere senza, dipende da “come” vuoi vivere.  L’arte non è elitaria. Anche chi non è mai entrato in contatto con luoghi d’arte risente dell’eco dei mutamenti artistici, ne è in un certo senso contaminato. Non sono astrazioni.

Ci svegliamo al mattino e c’è un lasso di tempo, più o meno breve, in cui ci domandiamo: mi alzo o no? Ecco, quel lasso di tempo racconta tutto della nostra vita. Ci alziamo solo se abbiamo valide ragioni, se il “come” di prima ci appaga.

Ti abbiamo visto di recente sugli schermi della RAI. Adesso a cosa stai lavorando?

Ho finito di girare “Mancino naturale”, il nuovo lungometraggio del regista Salvatore Allocca, sul mondo del calcio giovanile. Una commedia sentimentale diretta con particolare grazia. Sono molto contento di questa esperienza.
In primavera uscirà una serie, di cui vado altrettanto orgoglioso, ambientata negli anni Cinquanta all’interno della redazione de L’Ora di Palermo. I giornalisti, prima d’essere tali, erano artisti, intellettuali, drammaturghi. Si deve proprio a loro il giornalismo d’inchiesta, la coniazione del termine mafia riferita all’organizzazione criminale di cui si occupavano.
Andrà in onda nelle reti Mediaset e non escludo approdi in piattaforma. È stata data carta bianca a registi e sceneggiatori giovani e il loro talento ha fatto sì che venisse fuori un prodotto di qualità.

Ti sei diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico. Che cosa consiglieresti a un giovane aspirante attore in procinto di intraprendere i tuoi stessi studi?

Premetto che non amo dare consigli. Posso tuttavia dire che il mio è il mestiere più bello del mondo, ma pochi sanno quanto sia faticoso. Ricercare solo la popolarità non serve. Ci vogliono studio e tanto amore. Il segreto è la resistenza, non la fama. Io mi sento un privilegiato. Molti, tuttavia, in questo momento sono sopraffatti da una profonda tristezza.
Sulle spalle di tutte le maestranze, attori compresi, ricade un grande lavoro. Oggi si fa fatica. La povertà produce vergogna e in tanti non hanno la forza di raccontare cosa stiano vivendo. A ciò mi riferisco quando parlo di resistenza.
Malgrado ciò, non sconsiglierei mai di intraprendere la carriera di attore. La mia è pur sempre una professione bellissima.

L’appello di Francesco Colella
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