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IL TRONO DI SANGUE DI AKIRA KUROSAWA

Tempo di lettura: 6 minuti

Il 15 gennaio 1957 arrivò nei cinema giapponesi un’opera di incredibile novità per l’isola. Una pellicola che mescolava una delle più famose e complesse tragedie di Shakespeare con la visione e la magistrale abilità del più grande regista nipponico: Il trono di sangue di Akira Kurosawa.

Il trono di sangue è un film del 1957 diretto da Akira Kurosawa e scritto da Hideo Oguni, Ryuzo Kikushima, Shinobu Hashimoto e lo stesso Kurosawa. Nonostante presenti i canoni classici della cinematografia del regista di Tokyo e del Nō, il teatro classico giapponese, il film è un adattamento del Macbeth di William Shakespeare, probabilmente nella sua trasposizione più riuscita.

Come se il binomio Shakespeare-Kurosawa non fosse sufficiente a definire tale pellicola, la fedele ricostruzione del Giappone del XVI secolo, la magistrale interpretazione del grande Toshirō Mifune, attore feticcio di Kurosawa per eccellenza, e le musiche di altri capolavori del regista come La sfida del samurai, rendono questo film un vero e proprio capolavoro della settima arte.

«LE FOLLI CUPIDIGE E LE AMBIZIONI SCONVOLGONO LA MENTE, E ALLE PIÙ INIQUIE AZIONI GIUNGE L’UOMO FURENTE. L’INSAZIABILE SETE DEL POTERE LA GLORIA SPEZZA, E PER VENDETTA IL VINTO PUÒ CADERE NELL’INFIMA BASSEZZA»

Dopo aver ottenuto due grandi vittore in una campagna militare contro Noriyasu (Takashi Shimura), i due samurai Washizu (Toshirō Mifune) e Miki (Minori Chiaki) vengono chiamati dal Daymio del Castello Kumonosu, sua signoria Tsuzuki, per ricevere il giusto premio per la loro abilità. Mentre si trovano in una foresta incontrano uno Spirito (Chieko Naniwa) che predice a Washizu di diventare prima signore del Forte Nord, il più importante castello dopo quello del Daymio, e poi del Castello Kumonosu. A Miki viene invece predetto che suo figlio diventerà a sua volta Signore del Castello. I due samurai, scossi dalla profezia, arrivano da sua signoria Tsuzuki e Washizu viene promosso signore del Forte Nord, avverandosi così una delle premonizioni dello Spirito.

Nella sua nuova casa, Washizu racconta alla moglie Asaji (Isuzu Yamada) cosa è capitato e quest’ultima inizia a fare pressioni sul marito affinché uccida sua signoria e faccia avverare totalmente la profezia, prima che Miki la racconti a tutti rendendo Washizu un nemico del regnante. Il fato porta il Daymio al Forte Nord per pianificare un attacco al nemico Noriyasu, che avverrà il giorno seguente. Durante la notte, istigato dalle parole della moglie, Washizu uccide sua signoria e incolpa le guardie che erano di scorta, massacrandole prima che potessero dichiararsi innocenti. Il mattino seguente, appoggiato da un dubbioso Miki, Washizu diventa Signore del Castello Kumonosu. Asaji continua a manipolare il marito, questa volta contro Miki, il cui figlio secondo la profezia sarà Daymio dopo Washizu. Il nuovo Signore, in nome della sua amicizia con Miki, arriva a dichiarare suo figlio come suo legittimo erede, ma Asaji annunciando di essere incinta non intende lasciare che un estraneo usurpi il trono del marito. Durante un banchetto Miki e il figlio non si presentano e Washizu in preda al delirio afferma di vedere lo spettro del suo amico. Poco dopo, un assassino porta al Daymio la testa di Miki, dicendo però che il figlio è riuscito a fuggire e si è alleato con Noriyasu.

La situazione precipita: il Signore del Castello Kumonosu viene circondato dai nemici e sua moglie inizia a impazzire, perdendo anche il bambino. Washizu decide di consultare lo Spirito della foresta in merito al suo destino e quest’ultimo gli rivela che finché gli alberi della foresta non cammineranno, lui non sarà mai sconfitto. Convinto dall’impossibilità di tale avvenimento il Daymio rivela ai suoi soldati la profezia, spronandoli alla guerra. Quando gli alberi della foresta, abbattuti dai nemici e usati come travestimento per nascondere il loro numero, arrivano al Castello Kumonosu Washizu capisce che il suo destino è segnato, morendo trafitto dalle frecce dei suoi uomini.

«DI TUTTO QUEL CHE L’UOMO COMPIE, IN QUESTO MONDO NULLA RESTERÀ»

Il trono di sangue è intriso di alcuni degli elementi tipici dell’idea di cinema di Kurosawa, non solo trasponendo la cultura occidentale nella sua terra natale, ma anche attraverso il suo stile registico. A partire dall’uso di una scenografia maestosa che aveva già mostrato nel suo capolavoro I sette samurai e che sarà distintiva di tutti i suoi film in costume. Le sequenze di azione, ispirate allo stile dei western di John Ford, sono dinamiche ed energiche, ricche di campi lunghi e lunghissimi che esaltano la grandiosità della scenografia. Una dinamicità ripresa anche in fase di montaggio (sempre fatto da Kurosawa) dove addirittura i tagli presentano scorrimenti a tendina, che saranno poi ripresi nel cinema occidentale da George Lucas nei vari Star Wars, anziché le tradizionali dissolvenze del cinema giapponese. Nelle scene più verbose c’è invece una netta contrapposizione, sono spesso lente e silenziose, incentrate sui personaggi e sulla loro psiche e ricche di primi piani delle maschere che sono i loro volti. Ne Il trono di sangue Kurosawa sfrutta vari elementi teatrali del Nō, come sua organizzazione strutturale, maschere, musica, canto e coreografia riprodurre l’esperienza teatrale totale del teatro giapponese nel suo film. L’unione dello stile registico orientale di Kurosawa con una delle storie più belle di Shakespeare, con la tradizione del teatro classico nipponico e con le ispirazioni ai registi occidentali produce un’atmosfera tanto magniloquente quanto angosciante, che rende la narrazione della breve tragedia un’opera in cui i silenzi e le immagini sono più eloquenti dei dialoghi.

Anche i personaggi principali si ispirano sia alla cultura occidentale sia al teatro Nō, con dei movimenti  ed espressioni estremamente stilizzati che enfatizzano la tensione e l’intensità che intendono trasmettere. Lo Spirito della foresta si presenta, con le fattezze della maschera della Shakumi, intento a ruotare un fuso, una citazione alle Parche, le tessitrici del fato dell’uomo, il cui richiamo fa presagire l’inevitabilità della morte. Così come la regia è un’alternanza tra dinamicità e staticità anche i personaggi tendono a esserlo. Lo Spirito profeta è immobile, e parla in modo lento e sussurrato. La sua staticità viene condivisa anche dalla Lady Macbeth di Kurosawa, Asaji, il cui volto è identico alla maschera della Fukai, una donna di mezza età in cui bellezza sta svanendo, per essere sostituita dalla follia. Una figura ferma e composta, che a differenza della tragedia originale persuade il riluttante marito non con l’ambizione ma con la paura, instillando in lui il timore che possano spodestarlo una volta che Miki rivelerà la profezia dello Spirito. A donare dinamicità alla pellicola c’è il protagonista, un Macbeth ben più tragico di quello shakespeariano, perché più innocente. Washizu è condannato a realizzare il suo destino attraverso la violenta natura umana, che Kurosawa rappresenta come una ciclicità inevitabile per chiunque diventi Signore: l’uccisione per il potere è avvenuta prima di Washizu (Tsuzuki, il precedente Signore del Castello aveva ammazzato il suo predecessore), con Washizu e dopo di lui. Il Macbeth giapponese non è un antagonista tragico che si macchia volontariamente di omicidio per ambizione e desiderio di potere come nella tragedia di Shakespeare, Kurosawa attraverso il film critica aspramente la società non solo nipponica. Non è l’ambizione di un individuo a causarne la fine, ma il sistema sociale fondato sul sangue. Il libero arbitrio non è presente nel film, messo in secondo piano dall’eterno bisogno di violenza dell’umanità. E Kurosawa sa bene tutto ciò, avendo vissuto la tragedia della Seconda guerra mondiale. Gli eroi giusti della tragedia come Macduff scompaiono nel film: il sovrano morto era egli stesso un assassino, e Miki, pur sapendo di cosa si è macchiato Washizu, non si oppone alla sua nomina a signore del Castello Kumonosu. Kurosawa elimina dalla storia l’aspetto purificatore del finale, in cui il male viene annientato dalla giustizia. Washizu non cadrà per una giusta vendetta dopo essere diventato un tiranno, ma sarà vittima della paura che l’ha portato a sporcarsi del sangue dei suoi alleati.

Ruolo importantissimo lo gioca anche la natura, seconda vittima della società secondo Kurosawa, profanata dall’avidità e dal desiderio di grandezza dell’uomo. Il regista in virtù di ciò ha diretto il film quasi interamente sul monte Fuji, la vetta più alta del Giappone da molti considerata sacra. Il trono di sangue a più riprese mostra la natura sollevarsi contro l’uomo, trasformando ciò che in Shakespeare erano contorni in veri e propri elementi distruttori. Il gracchiare dei corvi, l’ululare del vento, lo scrosciare della pioggia e soprattutto la nebbia della foresta hanno un loro significato. L’unico luogo da cui la natura è esclusa è la stanza di Asaji, dove vengono ordite trame e omicidi, nella quale la donna perderà la ragione. Quando lei impazzisce il palazzo viene assalito dai corvi, quando il marito cade la foresta arriva al Castello Kumonosu: alla fine la natura si riappropria di ciò che è suo. Su questa natura trionfante Kurosawa chiude Il trono di sangue, le rovine del Castello Kumonosu che vengono fagocitate dalla nebbia e in sottofondo il canto col quale si è aperta la pellicola, indicando nuovamente l’andamento ciclico che permea il film.

Scritto da

Pisano di nascita e romano d'adozione. Da diversi anni ho sviluppato una grande passione per i film, il cinema e tutto ciò che si lega a esso, dalle origini con Méliès, all'Espressionismo tedesco, fino alla contemporaneità.

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