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GIORGIO BARBERIO CORSETTI: A TEATRO L’ANIMA RESPIRA E SI ALIMENTA DEL SILENZIO

Tempo di lettura: 4 minuti

L’intervista a Giorgio Barberio Corsetti, regista, attore, drammaturgo e consulente artistico del Teatro Argentina di Roma, a pochi giorni dal debutto televisivo in prima nazionale dello spettacolo teatrale “La metamorfosi” dal racconto di Franz Kafka.

Un classico kafkiano che richiama i temi dell’isolamento, della diversità, della alienazione. Una scelta antecedente o maturata durante l’emergenza sanitaria?

Stavo lavorando sull’Amleto di Shakespeare. Un percorso iniziato all’interno delle periferie romane. Amleto è del resto l’archetipo della gioventù usurpata che non riesce a trovare il proprio posto nel mondo: è stato usurpato del trono e non sa risolversi a commettere un crimine per prendere il posto del padre. È un personaggio in bilico e noi ci stavamo lavorando partendo da Tor Tre Teste al Quarticciolo, Tor Bella Monaca e Ostia Lido.

Avremmo dovuto debuttare in primavera, poi si è fermato tutto a causa della pandemia.
Quel lavoro che avevamo iniziato non avrebbe mai potuto sottostare alle norme che impongono il distanziamento, giocato com’era sul confronto e contatto dei corpi, sulla fisicità. E peraltro i costi economici del progetto non avrebbero potuto essere sostenuti in previsione di un pubblico esiguo.
In virtù di queste due considerazioni sono tornato al mio vecchio amore: Kafka.

Dalla deformità dell’individuo che si trasforma in insetto deriva la repellenza nei suoi confronti del mondo. Una sorta di distanziamento bramato quando la vita sociale diventa insostenibile? Una via di fuga da quel mondo a grandi caratteri sulla parete della stanza di Gregor Samsa?

Kafka si inventa un paradosso: Gregor trasformato. Nessuno si domanda perché. Ma la vita che conduceva spiega la depressione dell’individuo, a conforto della quale andrebbe approfondita la biografia di Kafka stesso. C’è una malattia sociale raccontata tra le righe. È da lì che inizia il viaggio di autodistruzione e di annullamento di Gregor.  

La metamorfosi comunicativa nella pièce rispecchia la condizione attuale dell’individuo, solo e costretto a fare i conti con sé stesso?

Si comprende che Gregor ha sostenuto economicamente quella famiglia che dopo la metamorfosi lo esclude: l’elemento economico risulta fondamentale. La famiglia si rigenera mentre lui si ammala.
Gregor non è capito e tutti pensano ch’egli stesso non capisca. Noi siamo invece con lui, vediamo ciò che lui vede, sentiamo e comprendiamo ciò che sente e vede. Noi “sappiamo”. Da qui anche la mia scelta, ardita se vogliamo, di usare la terza persona: è una maniera di raccontarsi, di attraversare le emozioni. Del resto la famiglia vive la catastrofe di questa cosa indicibile accadutale. Si entra così nel vivo delle azioni su cui ruota tutta la scrittura di Kafka.

Come si coniugano comicità e dramma?

Altro elemento rilevante della scrittura kafkiana: la comicità. Kafka è uno scrittore comico. La sua visione della vita è al contempo nichilista e profondamente ironica. Grazie al suo sguardo obliquo rinveniamo il tragico nell’assurdo. O meglio nel paradosso che, portato alle estreme conseguenze, è il punto fondamentale della sua scrittura. Kafka amava il cinema comico, il teatro yiddish.

La società sembra aver annullato le libertà individuali. Una fuga è possibile o l’individuo è senza speranza?

Stiamo vivendo una situazione estrema, tremenda. La domanda da porsi è: come vogliamo ricominciare? Io sto pensando a “Metamorfosi cabaret”, un progetto che coinvolge numerosi artisti, che prevede incontri con diverse associazioni. Credo sia dunque possibile tornare al senso di comunione, di accettazione dell’altro.
La questione è però la normalità a cui vogliamo tornare. Immaginiamo un inizio differente: con chi vogliamo dialogare?

Occorreva che Michelangelo Dalisi mettesse in scena un insetto. Da dove siete partiti? Qual è stato il lavoro sull’attore?

Kafka aveva raccomandato di non rappresentare l’animale in copertina. Ché l’animale è un paradosso, una forma mentale. È animale nella mente di Gregor e della sua famiglia. È un essere immaginario e immaginato dopo una notte agitata.

Sono quindi partito da Michelangelo, dalla ricostruzione dell’animale con la sua immaginazione. Non serviva rappresentare l’animale. Se gli attori immaginano qualcosa il pubblico li segue. Ciò che rende unica l’esperienza teatrale è la capacità degli attori di vivere, di attraversare l’esperienza. Lo spettatore è come se vivesse insieme a loro.

Gli schermi della tv ricongiungono idealmente platea di spettatori e palcoscenico dell’Argentina. Un atto di resistenza, il sereno utilizzo di mezzi alternativi o entrambe le cose?

Al teatro Argentina siamo entrati per il rush finale delle prove, con l’obiettivo di consegnare lo spettacolo per la televisione. Ma tutto ciò nella consapevolezza che lo spettacolo non nasce finché non incontra il pubblico. In TV siamo arrivati prima di “nascere”, in una condizione sospesa. Pur tuttavia è stata una bella maniera di finalizzare, giacché occorre avere sempre davanti l’obiettivo. È un doppio stato d’animo: da una parte il mancato incontro con il pubblico, dall’altra il desiderio di compiere comunque il tragitto.

La regia video consente i primi piani, il passaggio su un volto che diventa un mondo, guida insomma lo spettatore. Rimane il rimpianto di tutto quello che non è possibile far vedere e lo spettatore non è libero di posare lo sguardo dove vuole.

In scena inquietudini attualissime, disagi fortemente diffusi. Il teatro può ancora essere una cura?

Il teatro è cura, antidoto. Specie se nasce e vive nelle città. È il cuore pulsante delle città. Ce lo ricorda la sua stessa nascita, nell’antica Grecia, quando già si trattavano in maniera poetica problemi essenzialmente sociali.
Il teatro è un oggetto delicato, sottile, ma oltremodo necessario. Sono pur sempre esseri innanzi ad altri esseri. È la quintessenza dell’essere. È l’essere al mondo e nel mondo per eccellenza.
Per queste regioni il teatro ha bisogno della presenza, dello scambio sottile, della comunicazione.

Oggi, dopo averlo nostro malgrado sperimentato, sappiamo bene quanto profonda sia la mancanza della presenza, del calore dei corpi. C’è un gran bisogno di presenza, di collettività, quella collettività composta da individui che ascoltano in silenzio a teatro dopo il fragore del quotidiano. A teatro l’anima respira e si alimenta del silenzio.

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