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“LACCI” DI DANIELE LUCHETTI

Tempo di lettura: 3 minuti

“Lacci” di Daniele Luchetti, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, dopo aver aperto tiepidamente Venezia 77 è sbarcato nelle sale cinematografiche. 

La macchina da presa diventa buco della serratura e convulsamente, come del resto è convulsa la vita, lascia si spiino le disfunzioni familiari entro i perimetri delle abitazioni, ancor prima che delle anime, ineffabili, sfuggenti, per certi versi neglette. Ché l’individuo prende realmente forma solo nell’orchestra distonica di un qualunque ménage. La declinazione dei tratti psicologici di un soggetto passa inevitabilmente dallo sguardo di chi gli sta più vicino. Dentro i patti, negli atavici trittici padre-madre-figli, irrompono le vere nature di esseri cui è stata preclusa la possibilità di cambiare senza alterare gli equilibri o generare tumulti. 

La regia di Luchetti, sulla scorta delle scelte stilistiche di Starnone, mira abilmente alla ricostruzione della storia procedendo per flashback e flashforward. L’ordine narrativo, che pur non conta sulle corrispondenze fisiognomiche delle due coppie di attori, è il valore aggiunto di una pellicola alla quale spetta l’arduo compito di riedificare, tra la polvere che ti si appiccica alle pupille e sulle rovine già andate bellamente distrutte. 

Abbondano i primi piani durante le colluttazioni emotive dei protagonisti, sostenuti ma pure deformati da dialoghi troppo sofisticati. Poi il campo si allarga e paradossalmente spiattella lo sfacelo familiare, al ritratto del quale la fotografia di Ivan Casalgrandi dà un rilevante contributo.

In “Lacci” non esistono vincitori né vinti. Ciascuno è parimenti vittima e carnefice. Lo è Aldo nell’incapacità di vivere i propri sentimenti senza calpestare quelli altrui. Lo è Vanda nell’arrendevolezza sconnessa al dolore che procura altro dolore. 

Non ci si trova più, tutto a un tratto. Eppure non si lascia andare. Dapprima si trattiene a forza, poi si molla la presa, poi si accoglie nuovamente. E in questo scellerato sciogliere e riallacciare senza senso si sparpagliano silenzi, rancore, rabbia, efferatezza. Gli individui si arenano sul litorale di quella mediocrità che ostacola l’unica metamorfosi possibile: quella di sé stessi. Puntano il dito verso l’altro per la comodità di trovare alibi alla propria inadeguatezza. Sconvolge più del resto l’immutabilità delle persone sulla giostra dell’esistenza, salvo poi custodirne il giro, quel minuscolo giro durante il quale ci si è sentiti vivi.

Tanto di Aldo, cui Luigi Lo Cascio e Silvio Orlando assegnano i due volti della quiete ossimoricamente tempestosa, quanto di Vanda, alla quale si ascrive il disequilibrio più evidente di Alba Rohrwacher e quello artatamente contenuto di Laura Morante, non si scorge alcuna trasformazione. Entrambi si sono accomodati sulla parte più confortevole della vita. Felici o infelici, poco importa. Consapevoli quasi mai.

La giovane Lidia (Linda Caridi), che genera il cortocircuito familiare, è di fatto il personaggio provvisto di maggiore stabilità emotiva. È a lei che compete accendere un dialogo sconveniente, insinuare dubbi, scovare ordine tra gli interstizi del caos. 

Anna e Sandro pagano il conto salato di un contratto che gli adulti non riescono a onorare. Vivono la guerra dentro casa, tra un silenzio e un’esplosione. Vorrebbero imparare a vivere, ma apprendono esclusivamente come sopravvivere. Condividono una maniera particolare di allacciare le scarpe, mentre altri lacci si legavano da soli, e stringevano, e facevano un male cane. Sul finale, spetta ad Anna e Sandro, egregiamente interpretati da Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini, ripristinare quel caos di cui il tempo ha inteso circoscrivere i confini, tra una scatola e una libreria, tra una poltrona e il contenitore del caffè. Scegliere per la prima volta il caos e finalmente riderne, con amarezza, ma riderne. Prima di sbattere dietro le spalle la porta al disastro, alla rovina, alla distruzione e alla vergogna. In braccio Labes, meno bestia e più souvenir della tragedia del vivere dovuto, opportuno, rassegnato. Ma ha un senso il saccheggio della finzione?

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