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L’ARTE È LA MEDICINA PIU’ FORTE DI TUTTE. PAROLA DI STEFANO FRESI

Tempo di lettura: 6 minuti

Che ruolo può ricoprire il mondo dell’arte nell’Italia di domani? Con Notizie di Spettacolo, già da diverse settimane, ci interroghiamo insieme agli operatori culturali di tutto il belpaese sulle necessità di questo mondo, quello dello Spettacolo dal vivo, percepito troppo spesso come ovattato e distante ma che, in realtà, è composto da donne e uomini, lavoratrici e lavoratori, dove tutti – nessuno escluso – sono un tassello fondamentale della grande catena di montaggio dell’industria culturale italiana.

In una mattina di metà novembre, di questo e di molto altro, ne parlo con Stefano Fresi, uno dei volti più amati ed apprezzati del cinema italiano, che di recente ha prestato la voce a Pumbaa nel doppiaggio nostrano del live action de Il Re Leone, storia tra le più belle mai raccontate dalla Disney.

La sua è una carriera veramente notevole. Tra le tante, notato da Michele Placido, ha interpretato il personaggio di Secco in “Romanzo Criminale”, e del chimico Alberto Petrelli nella trilogia di “Smetto Quando Voglio”. Tra i riconoscimenti ricevuti, vanta la vittoria ai Nastri D’Argento nel 2019 del premio come miglior attore in un film commedia e del premio “Nino Manfredi”.

Stefano, come sta cambiando il mondo dell’arte in funzione della pandemia?

«Sono un uomo che cerca sempre di trarre dai momenti brutti il massimo del positivo possibile. Mi piace pensare, quindi, che questa crisi terrificante sia l’ennesima prova di quanto il mondo dello spettacolo sia frangibile, di quanto ci spinga – o dovrebbe spingerci – tutti a migliorare la situazione di partenza. Se siamo percepiti così, ossia come un comparto debole e sacrificabile, da poter chiudere tout-court da un momento all’altro come se niente fosse, potrebbe anche essere colpa della nostra mala organizzazione. È vero che il mondo dello spettacolo è molto eterogeneo, ma non siamo uniti nell’affrontare i problemi. In questo momento vanno tutelate le persone che vivono di questo, che lo fanno proprio come mestiere, dal segretario, all’attrezzista, all’attore. Come operatori dello spettacolo abbiamo dimostrato di aver preso tutto molto sul serio quello che è successo: la prima ondata della pandemia è stata un fulmine a ciel sereno per tutti, e da lì ci siamo attrezzati per affrontare una situazione che, si sapeva benissimo, si sarebbe poi ripresentata in autunno. Abbiamo, come comparto, fatto investimenti importanti, ci siamo preparati a guadagnare la metà spendendo di più per ottemperare alle norme di sicurezza, pur garantendo degli standard qualitativamente invariati. Lo voglio dire a gran voce, ovunque io sia andato in questi mesi, al cinema, a teatro o sul set, mi sono sentito al sicuro come in nessun altro posto».

Ad essere penalizzati, in questo momento, sono soprattutto i lavoratori dello spettacolo.

«Di fronte ad un lockdown generalizzato e necessario, saremmo i primi a voler chiudere, perché ci teniamo alla salute del nostro pubblico quanto a quella dei nostri collaboratori e di noi stessi. Ma il fatto di essere percepiti come i primi ad essere sacrificabili, senza pensare alla debolezza economica dell’80% di chi lavora nel mondo dello spettacolo, che di fronte a un fermo anche di un solo mese ha gravissimi problemi di sussistenza, io penso che sia una leggerezza imperdonabile. Penso, ad esempio, ai giovani artisti, a quegli attori che magari lavorano nei teatri off e che in realtà non stanno lavorando da mesi. Come fanno a vivere, a pagare l’affitto o le bollette? I lavoratori dello spettacolo non sono tutti attori o registi ricchissimi che si possono permettere di stare tre mesi a casa senza problemi. Ed a chi dice che tutti noi abbiamo questi privilegi, senza fare distinzioni, rispondo di leggersi i titoli di coda di un film. Scopriranno che dietro ad una produzione non ci sono meno di 100 famiglie che vivono di quel mestiere, con una paga equiparabile a quella di un lavoratore di qualsiasi settore. La differenza sta nelle tutele, che per i lavoratori dello spettacolo sono quasi zero».

Che ruolo può avere l’arte e la cultura – quindi la musica, il cinema e il teatro – nella rinascita che verrà dopo questa pausa forzata?

donchisci@tte-Alessandro-Benvenuti-e-Stefano-Fresi

«L’Italia, senza giri di parole, si basa sul suo patrimonio artistico. È famosa nel mondo per la bellezza che ha e per quella che quotidianamente crea. Con patrimonio artistico non intendo solo monumenti, quadri e chiese, ma lo sono anche gli artisti di strada così come i padri fondatori della letteratura. Siamo invidiati dal mondo per tutto ciò, perché abbiamo sempre fatto tutto con gusto. Ed è proprio per questo che penso che sia paradossale il fatto che il nostro mondo sia percepito come sacrificabile! Dobbiamo indispensabilmente recuperare le origini. Nel momento in cui il Paese è “malato”, il teatro, la musica, il cinema, l’arte in generale sono i farmaci più forti per combattere un momento così duro e difficile psicologicamente. Come si sarebbe potuto sopravvivere al lockdown senza musica da ascoltare, senza film da vedere o senza libri da leggere? Ecco, l’Italia deve investire fortemente sulla cultura. Ogni euro speso nel settore ne genera cinque in economia circolare».

Come hai vissuto, da artista, il lockdown e come stai vivendo questa seconda ‘pausa’?

«Le immagini dei camion che portavano via i defunti da Bergamo mi ha segnato molto. Il pensiero che, da un momento all’altro, tu non possa rivedere più un tuo familiare né riabbracciarlo per un ultimo saluto, mi fa capire che siamo in guerra. È la nostra guerra, è innegabile. Basterebbe guardare fuori dalla finestra. Io il primo lockdown l’ho trascorso da privilegiato, a casa mia, circondato dalla famiglia. Mi sono dedicato allo studio, alla lettura, alla musica. Una piccola isola felice che però era macchiata da quello che accadeva fuori, ma che in quel momento percepivo come un qualcosa di distante. Oggi è molto diverso, oggi è tutto più vicino. Ho diversi amici che sono ricoverati in ospedale a causa del covid. Come me, tutti abbiamo o abbiamo avuto un amico o un conoscente che questo virus lo ha combattuto. Nonostante ciò ci sono ancora i negazionisti, e credimi, vorrei riempirli di insulti».

Situazioni, queste, che ci fanno riflettere su quanto siamo fortunati, su chi eravamo, ma soprattutto su chi siamo oggi. Chi era Stefano ai tempi de “I tre Moschettieri” e chi è lo Stefano di oggi?

«C’è una cosa che mi piace di me, te lo confesso. Mi piace avere molto chiaro un concetto: non dimentico mai, in nessun momento della mia vita, il privilegio gigantesco che io ho, da sempre, di vivere della mia passione. Dai livelli più bassi, quando ero più giovane, fino ad arrivare adesso che mi sembra di giocare in serie A. Questa è una gioia che auguro a chiunque, perché se anche arrivo stanco, la sera, a casa, vado a letto con un sorriso che mi parte da un orecchio e finisce all’altro. Faccio quello che ho sempre voluto fare. È un mestiere particolare: puoi passare di moda dopodomani. Ma la cosa più bella in assoluto, di tutta la mia vita, è stata diventare padre, che per me è il punto più alto che si può raggiungere nella propria vita. Stefano di oggi è lo Stefano dell’inizio. Solo un po’ più grande, con un po’ più di esperienza, ma soprattutto con tanto amore in più».

Per inseguire il tuo grande sogno ed arrivare allo Stefano di oggi hai fatto tanti sacrifici e tanta gavetta. Cosa diresti ad un giovane che vuole avvicinarsi al tuo mestiere?

«Di buttarcisi anima e cuore. Non solo in questo mestiere, ma in qualsiasi altra passione possa avere. Che sia la falegnameria, la pittura, o altro. Sono mestieri, e per farli bisogna studiare. Serve la teoria, ma soprattutto ci vuole la pratica. Chi vuole fare l’attore deve partire dal basso, cimentarcisi subito buttandosi su un palco, anche con una compagnia amatoriale. Ascoltare i maestri, i suggerimenti, i consigli, perché questo è un mestiere fatto per i ladri e per le spugne. Bisogna stare attenti a rubare tantissimo guardando chi è più bravo di te, per capire se ci sono dei difetti da dimenticare o dei pregi di cui farne tesoro. Ci vuole fortuna, ma da sola non basta: serve il talento. Non è mai la vetta lo scopo del viaggio, ma è il viaggio, in questo lavoro».

Un viaggio dove ne succedono delle belle.

«Ti racconto un aneddoto. Ho fatto quest’ultimo film con Giuseppe Battiston, siamo andati a cena a chiusura del primo giorno di riprese. La cameriera è venuta al tavolo ci ha riconosciuti, ed ha esclamato, con accento veneto, sorpresa: “Wow! State facendo un film insieme voi due? Come si intitola?”. “Il grande passo”, rispondo. E lei replica: “Ah, non l’ho visto”».

Battiston e Fresi

Piccolo retroscena: iniziamo a ridere entrambi, io e Stefano, talmente tanto forte che si interrompe anche la chiamata. Ci risentiamo, velocemente, per i saluti e per l’ultimissima domanda.

Stefano, dopo tutto questo, dopo questo anno terribile… torneremo ad essere felici?

«Assolutamente sì, è inevitabile. Dobbiamo farlo. Per noi stessi, ma soprattutto per i nostri figli”.

Scritto da

Lavoro nel campo della comunicazione e mi occupo di teatro come regista e attore e di radio come speaker e conduttore. Ho scritto e scrivo su numerose testate.

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