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“LE MANI CHE MUOVONO I SOGNI”. STEFANO GIUNCHI CI PRESENTA L’ISOLA DI ERNESTO

Tempo di lettura: 6 minuti

Un romanzo come un cunto
Cuticchio ci regala, con “L’isola di Ernesto” un testo di narrativa affascinante, che nello stesso tempo è una cronaca e un cunto.

Lo aveva già fatto Andrea da Barberino, legando assieme le narrazioni orali da lui fatte nelle piazze nelle fiere medioevali, e scrivendo il Guerìn Meschino, primo romanzo-best seller arrivato fino a noi assieme, guarda caso, a I reali di Francia, nutrendo nei secoli la letteratura italiana e il lavoro dei contastorie.
Leggendo il Meschino si intravedono i modi e gli archetipi del racconto orale, come avviene con Omero e gli antichi aedi.
La stessa cosa avviene con questo romanzo corto, fin dalla prima pagina, dove Mimmo acchiappa i lettori (“Signori che leggete questi fogli” vale come il “Signuri mei” con cui comincia le narrazioni orali) e li trasforma in uditori.

La storia è subito rara e piena di fascino.
Durante le riprese del film “Terraferma” di Emanuele Crialese, sull’isola di Linosa, Mimmo deve costruire ex novo (come si fa con un pupo importante), il personaggio di Ernesto, anziano patriarca del borgo di pescatori.
Il rapporto col mare è secolare, come il modo di vedere le cose degli abitanti.
La “legge del mare” viene invocata da chi sa che bisogna sempre salvare le vite in pericolo e messa in ombra con imbarazzo da chi ha abbandonato la pesca e abbracciato altri mestieri di sopravvivenza, come l’ospitalità e le gite in barca per turisti.
Mimmo ci fa ben capire come, in questa sua impegnativa prova cinematografica, ha voluto tener ben separati la propria identità dal personaggio che vivrà nel film.

Diventa sempre più centrale, nello svilupparsi della sceneggiatura, come nel suo sentire personale, il dramma dei neri sempre in movimento. In acqua per non affogare, a terra per scappare verso luoghi del desiderio, verso una salvezza, un lavoro, un parente a cui ricongiungersi, un futuro.
La delicata storia di vicinanza e di solidarietà (mai facile), fra Ernesto, il nipote Filippo e la nuora, con l’Eritrea, la bambina neonata e il figlio, vengono percepite da Mimmo con sensibilità a volte diverse da quelle di Ernesto.
La famiglia di Ernesto, con contrasti inevitabili, finisce per allargarsi e includere fra le sue preoccupazioni (la finanza gli ha sequestrato la barca Santuzza, le fonti di sostentamento rimangono precarie)anche questi profughi, da aiutare, da far arrivare alla “terraferma”.


Mimmo si trova a seguire, in una lunga pausa di lavorazione del film, il suo “personaggio” con ansia e curiosità. Si preoccupa di non “perderlo”, di non dimenticarne i minimi comportamenti, le tonalità della voce, i modi di guardare, concordati con il regista (che è il loro vero autore).
Nello stesso tempo Ernesto ha una sua vita autonoma, fa le sue scoperte, sembra invitare Mimmo a occuparsi di lui, ma con garbo.
Il cuore del film sta nella fedeltà del vecchio pescatore alla legge del mare e a una morale ancestrale. Gli ultimi fotogrammi riprendono dall’alto la Santuzza con il  nipote Filippo (erede morale e culturale del nonno) e la famiglia nera in fuga verso la terraferma. Ci arriveranno, finalmente? Oppure siamo di nuovo rientrati tutti in mezzo a un mare che non finisce mai..
Il cuore del libro di Cuticchio sta invece nella narrazione tormentata di questo gioco degli specchi fra Ernesto, un personaggio inventato con cura (ma vivo e vegeto nel film), e Mimmo, l’attore, il suo creatore, che lo osserva con partecipazione amorevole, ma che ogni tanto guarda con i suoi occhi.

Repertori e attrezzi
Nel perdersi e ritrovarsi i due protagonisti del libro attraversano il set e le strade vere di Linosa.
Incontrano i personaggi del film, gli abitanti, i tecnici, gli attrezzisti, le sarte, gli attori.. in una confusione variopinta, come fossero alla Vuccirìa, assieme agli oggetti, agli animali, ai pesci, ai motorini in un girotondo intenso e vivace.
Cuticchio fa ampio uso delle “liste”, tipici inserti delle narrazioni orali (depositi di memoria descrittiva). Ne ho contate diverse, quelle dei parenti, la nomenclatura dei pesci, quelle delle famiglie isolane, dei legumi e delle piante, degli uccelli, dei cognomi e delle dediche sulle lapidi del cimitero, la lista dei nomi e dei soprannomi.
“Mano a mano arrivano pure i cani”..
Il modo di elencare di Cuticchio è ironico e colorato (più del minimalismo carveriano) e più caldo delle tassonomie di Perec.
Alle liste si aggiungono i proverbi, i toponimi e la loro etimologia popolare.

A offrire continue “vie di fuga” immaginifiche, vengono citati Kafka, Calvino, Quenau, Cervantes, lo Stevenson dell’Isola e quello di Jekill, Boris Vian. 
La vicenda è intessuta di dissertazioni (come quella su Stanislavski, Meirchold e il “metodo”, ma anche Brecht, Pirandello e Katami). E poi scene da film, come King Kong e Papillon o citazioni di registi, come Hitchcock e Sorrentino.
Ogni angolo di Linosa, attraversata da inerpicazioni faticose sui resti dei vulcani, richiamano personaggi dell’epica e della storia, Narciso, Pigmalione, Schlieman e i suoi scavi a Micene, il canto delle Sirene..

Cuticchio ha parole per i suoi allestimenti con i pupi, dal Tancredi e Clorinda alla costruzione di una speciale marionetta per una spedizione in Cina, e tornano spesso dei lampi di immagine sulla vita e il lavoro dei Figli d’Arte Cuticchio, del figlio Giacomo e delle sue musiche, di Elisa la moglie (con lui sull’isola per brevi momenti).

Corpi e persone, dentro e fuori
Tutto il romanzo-breve è percorso da una moltitudine di richiami alla sua vita professionale, quasi messi a disposizione di Ernesto, affinchè ne distilli quel po’ che serve, mantenendo le distanze.
Ernesto condivide con Mimmo il corpo, inscindibilmente, ma spesso ne esce in cerca della sua realtà. Mimmo segue il suo alter ego con delicatezza e apprensione, come un padre seguirebbe il figlio che da adolescente diventa adulto e tende a muoversi senza preavvisi, curioso e sempre più affezionato ai propri desideri, al proprio immaginario. Come un puparo segue i movimenti sul tavolaccio delle sue creature, che ad ogni momento gli scappano dalle mani, suggerendogli movimenti e posture a cui non aveva pensato.

Lo scrittore tende a scomparire dietro i suoi personaggi, per non distrarre l’attenzione del lettore che li vuole seguire nella loro cornice di realtà.
Così accade nel cinema, dove regista e pubblico siedono su due poltrone vicine e seguono una realtà che ormai si muove da sola, sullo schermo.
Il cuntista non scompare mai.
La sua presenza è lì sulla pedana, o sotto l’ombra di un albero, col il suo corpo (la magra silhouette di Peppino Celano, o la imponete figura del suo allievo preferito), la sua spada nella mano, lo sguardo impegnato a cercare il pubblico, la voce suadente o tonante (quando parte il cunto “ritmato”), il colpo di tallone..
Il cuntista ogni sera entra ed esce più volte dai personaggi che racconta. Ogni tanto è Orlando o Angelica che combattono, ogni tanto è se stesso che ne traccia i movimenti e le vicende. 
Mimmo dà il corpo e la voce e il cuore ad Ernesto, il patriarca gentile, aiutandolo lealmente ad essere se stesso fino in fondo..
Spesso può vedere passare l’immagine del suo personaggio. Lo conosce, lo plasma, spesso ne è influenzato, lo incoraggia o lo consola..
E’ la stessa cosa che fanno i cuntisti, i pupari, i burattinai. In presenza, dal vivo, in una performance che ogni volta è un’avventura.
Cuticchio questa volta il gioco lo fa con un romanzo, aperto e dalle molte tracce, memorie, cronache, verità, teatralità, passione, attingendo a un nutrito repertorio. Entrandovi ed uscendovi a piacere (nei giorni della pausa di lavorazione, tornando addirittura a Palermo ad occuparsi delle sue cose e bagnandosi nel suo mare).

La storia è continuata
Nelle ultime pagine del libro Mimmo si rammarica di non aver fatto il cunto per gli abitanti dell’Isola, come si erano promessi all’inizio.
Cuticchio rimase profondamente colpito (il libro né una traccia fedele, dieci anni dopo) dall’esperienza di autoconsapevolezza vissuta a Linosa.
Al punto che un anno dopo esatto, nell’estete del 2011, la famiglia Cuticchio trasferì a Linosa la diciottesima edizione della loro fantastica Macchina dei Sogni, il festival più popolare e raffinato che io conosca.
Ritornò così la magia del mare (e dei suoi drammi), dei personaggi rappresentati da pupi, burattini e oggetti. Ritornarono gli abitanti ritrovati, le storie, il canto delle berte, gli artisti, i bambini che non avevano mai visto i pupi..

Devo chiedere a Elisa, se si fece vivo anche Ernesto.

Ah, e devo anche chieder all’amico Michele, grande conoscitore di cinema, se non sembra anche a lui che questo breve romanzo sia una sceneggiatura già pronta per un bravo regista.

Scritto da

Classe ‘48, ha studiato filosofia e antropologia culturale a Firenze. Dopo esperienze nella comunicazione e nell’associazionismo culturale, dedica per lunghi anni il suo tempo al Teatro di Figura. Partecipa alla fondazione e anima per decenni il Festival “Arrivano dal mare!”, l’UNIMA Italia, l’ATF/AGIS. Ha affermato in Italia l’uso del termine teatro di figura, dirige da 20 anni l’Atelier delle Figure/Scuola per Burattinai e Contastorie. Autore e regista di spettacoli, continua oggi la sua attività di ricercatore e pubblicista.

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