Di Andrea Colamedici e Maura Gancitano (Tlon)
Le finte riaperture dei teatri sono soltanto un modo per fingere di aver fatto qualcosa e tenere buoni i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, nell’augurio che le cose si risolvano presto da sé. Ma se c’è un fatto che bisognerebbe aver imparato dalla pandemia è che certi problemi endemici, evidenziati dalla pandemia, non si risolvono da soli ma nel tempo si ingigantiscono.
Continuiamo a staccare pezzi di futuro per provare a scaldarci nel presente, senza neanche riuscire a sentire meno freddo.
Alessandro Arnone, direttore del teatro Manzoni (che di posti ne avrebbe 838), ha spiegato che con 200 spettatori andrebbe incontro ogni serata a una perdita secca, colossale. E che a restare in piedi sarebbero soltanto quegli spazi che prendono rilevanti fondi dal Fus, fondo unico per lo spettacolo (al 47% fondazioni liriche e, come scrive l’Istituto Bruno Leoni, “sempre i medesimi soggetti”).
Figuriamoci un teatro da 100 posti, che si ritroverebbe con 25 paganti a sera. Di nuovo, non siamo tutti nella stessa barca. Siamo nella stessa tempesta, e a venire salvati sono solo gli yacht.
Servono, come chiedono da tempo gli amici dell’associazione dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo “Bauli in Piazza“, i sussidi necessari al sostentamento degli operatori del settore e nuovi modelli e protocolli di ripartenza.
Non contentini utili solo a mostrarsi coinvolti.
Il teatro non è un luogo di svago, ma uno spazio di creazione di comunità dal potere simbolico profondamente unificante. Come scrive il filosofo coreano Byung-Chul Han, “il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità che servono per svolgere un rito fondano un legame tra tra il sé e l’Altro – perché i riti strutturano un rapporto con il mondo”, creando la comunità.
Senza dimenticare che il settore dello spettacolo contribuisce largamente a quei 58 miliardi di euro che compongono il 4% del Pil italiano costituito dall’industria della cultura.
Oggi non capiamo che l’assenza di ritualità nei corpi è concausa dell’emergenza psichica.
Il livello di civiltà di una società si capisce dalle cose a cui da più importanza.
Rischiamo di pagare negli anni le conseguenze colossali di misure straordinarie che diventano via via più ordinarie. Rischiamo di pagarle in termini di tenuta psichica degli adulti del futuro, a cui stiamo già lasciando una serie infinita di sfide globali alle quali non abbiamo evidentemente saputo rispondere.
Non facciamo sparire il teatro.