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IL REGISTA DANIELE SURACI CI PARLA DI: “U SCANTU”

Tempo di lettura: 4 minuti

“Per l’abile regia e l’equilibrio narrativo con cui il film riesce a trasmettere, senza mai cadere nella retorica, inquietudini, insicurezze e vitalità di un bambino di dieci anni alla ricerca della figura paterna”. La storia di un ragazzino che deve affrontare le proprie paure e di un padre accartocciato nel suo dolore.  L’intervista a Daniele Suraci, regista e sceneggiatore. All’attivo i contrometraggi “La terra” e “Il passo della lumaca”, anch’essi insigniti di numerosi riconoscimenti.

Da una parte l’attesa, dall’altra il dolore. Poi le carte si mescolano: al ritorno del padre corrisponde la ricerca affannosa, in acqua, del figlio. Bisogna attraversare necessariamente la paura per trovarsi e salvarsi?

Nella mia storia è un movimento necessario. È il classico viaggio dell’eroe che supera gli ostacoli per raggiungere il suo obiettivo. Passare attraverso le difficoltà e desiderare o applicarsi nel superarle è un passaggio di maturazione che ogni individuo fa. A riguardo mi viene in mente una bellissima risposta che Federico Fellini diede a Tonino Guerra quando lo scrittore gli chiese del perché a casa sua ci fosse anche tanta gente strana e poco raccomandabile. Fellini rispose che “è solo grazie al buio che esiste la luce”. La trovo una frase azzeccata per questa storia, dove l’incontro reale tra padre e figlio avviene in mare, che ha quasi una funzione salvifica e di rinascita. 

Ph. Laura Lauro

La paura è come l’orizzonte che si vede, ma non esiste?

In un certo senso e con un particolare connotato filosofico, può anche essere così. Credo che spesso le paure ci limitino, hanno un aspetto gigantesco dentro di noi, alle volte sono grandi come degli scogli dai quali è difficile riuscire a “buttarsi”. La paura è un’emozione necessaria all’individuo per la propria salvezza, talvolta funziona da innesco per il coraggio.

Il mare è un protagonista nemmeno troppo silenzioso. L’effetto sonoro d’ogni tuffo sembra annullare le voci umane. Del resto, nel silenzio delle voci, si nasconde la solitudine delle anime.

L’intenzione è sempre stata quella di raccontare il mondo interiore del personaggio anche attraverso il luogo in cui ruota la sua vicenda. Tuffarsi in quel mondo subacqueo è un po’ come attraversare una soglia, penetrare in un’altra dimensione, quella interiore, quella dell’anima. Con Matteo Di Simone, sound designer, abbiamo lavorato in questa direzione, creando una profondità sonora che sottolineasse questa differenza. 

Il dolore procura rabbia. La scena del ragazzino alle prese con il polipo sembra attestarla.

La scena del polpo sbattuto sulla scogliera è certamente uno sfogo del ragazzo. Saro non riesce a capire il mondo emozionale che lo attanaglia, vorrebbe una guida, desidera un padre che lo accompagni lungo il suo percorso di crescita. Ha la necessità di capire. Non ci riesce e la rabbia ha il sopravvento. Saro scruta l’orizzonte nell’attesa del ritorno di un padre che egoisticamente si è rinchiuso nel suo dolore dopo essere stato abbandonato dalla moglie.  In realtà “U Scantu” è una storia in cui il dolore e la rabbia lentamente lasciano spazio all’amore.  

L’amore è malattia o, come sembra sussurrare “U scantu”, possibile salvezza?

L’intenzione era quella di raccontare una storia dove la comprensione di questo sentimento portasse al cambiamento, difatti da malattia si trasforma in uno strumento necessario per capire, per perdonare, per ritrovarsi e per trovare il coraggio.  L’amore si trasforma in quello strumento necessario per superare le proprie paure.

Che cosa significa affidarsi a un attore di grande esperienza come Fabrizio Ferracane (miglior attore al Marino Short Film Festival 2020 per “U scantu”) e al contempo dirigere bambini alla prima esperienza con la macchina da presa?

Fabrizio è stato sin da subito molto generoso nel dare al personaggio la giusta struttura fisica ed emozionale. In fase di preparazione, gli ho parlato a lungo del padre, del modo in cui lo avevo concepito e lo immaginavo. Le sue poche domande sono state centratissime. Alla prova costume ho visto il personaggio in carne e ossa, molto vicino all’idea che avevo io ma con delle caratteristiche che erano tutte sue, molto umane e personali. È stato un momento magico che spero si ripeterà. Ho imparato molto da lui.  Anche la relazione tra Fabrizio Ferracane e Giuseppe Romeo, il figlio, si è costruita durante le riprese. Fino alla fine, anche durante le pause tra una scena e l’altra, sono rimasti un po’ distaccati. Credo che il suo modo discreto di lavorare sul set, nonostante la notorietà, abbia posto le giuste basi per riuscire a raccontare al meglio questa storia.  Con i bambini non mi è venuto molto complesso lavorare. Avevo creato una buona intesa con tutti. A mio parere sono stati straordinari, nessuno aveva mai recitato se non l’antagonista di Saro, Vincenzo Amedeo. Con ognuno di loro ho voluto lavorare sia singolarmente sia in gruppo. Mi ha colpito molto il desiderio che avevano di credere in questa storia e interpretarla, volerci entrare in profondità. Addirittura ci sono stati momenti in cui era la ragazzina, Aurora Galimi, a mio parere molto brava, a correggere alcune battute quando le provavamo. A riguardo devo ringraziare anche Lele Nucera, aiuto regia e casting director, che ha messo in campo tutta la sua esperienza.

I Fabrique du Cinéma, ove ve ne fosse bisogno, sono un ulteriore incentivo a proseguire la strada intrapresa. Progetti in cantiere?

Sicuramente i premi fanno piacere e credo siano necessari per noi che ambiamo a fare questo tipo di lavoro. Sono degli apprezzamenti per le lunghissime fatiche e sicuramente degli incentivi per andare avanti. Per me vuol dire che l’intera troupe – che non smetterò mai di ringraziare per la dedizione e la voglia che ha messo nel progetto – ha lavorato bene, che si è riusciti a raccontare al meglio quella storia, rispettandola. 

In questo momento sono in fase di scrittura del mio primo lungometraggio: una storia al femminile, sempre all’interno di una dinamica familiare. Sono intenzionato a realizzarla in Calabria perché credo sia una terra particolarmente magica, dove l’antico mito è fortemente presente nella cultura degli uomini che la abitano, dove spesso si ha già una percezione visiva delle tematiche che caratterizzano la storia, come in “U scantu” in cui gli scogli appuntiti rappresentano il dolore che caratterizza i personaggi nelle loro solitudini.

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