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UN DANTE SENZA DANTE CON LA MAGIA DELLE FIGURE

Tempo di lettura: 6 minuti

Prosegue il viaggio di Stefano Giunchi e della sua rubrica “le mani che muovono i sogni”. Oggi ci troviamo al Teatro del Drago di Ravenna

LA SELVA OSCURA
Nel buio si distingue a malapena un musicista vestito di bianco, che si aggira su un tappeto dai colori smorti. Le note della sua fisarmonica e di un gruppo di strumentisti accompagnano una giovane donna che canta con voce distaccata.
Musiche, avvincenti che seguono in modo puntuale le azioni dello spettacolo.
Due attrici portano con delicatezza degli origami di carta, quelli che impariamo a fare da piccoli, come una bocca che si apre e si richiude, sul tappeto e mentre la musica diventa sempre più stridore.
Le terzine di inizio dell’Inferno risuonano nell’aria, mentre le tre belve, scatenate e ringhianti, baccanti e streghe medioevali assieme, si aggirano furenti, stropicciando origami e tappeto assieme. Lo scempio delle belve lascia vedere il pavimento vero, un quadrato diviso da geometrie, di un colore lattiginoso.
“Amor, che nella mente mi ragiona..” introduce la danza sensuale di una attrice, sostenuta da un pizzicato e da una dolce melodia.
La danzatrice esplora la trama del disegno: ora sono in quattro e giocano con le losanghe di cui è composto il tappeto, alzandole e ricomponendole, come sipari componibili.
Inizia un confronto fra le mani degli attori, che si sfiorano, si intrecciano. Appaiono negli indici altrettante palline di Obrazov, con cui i burattinai apprendono i primi movimenti dell’animazione.
Il gioco diventa ancora più chiaro: vi è una quantità di delicati esserini che si toccano e si accarezzano. La scena evoca il capitolo dell’amore, ma anche la nascita più arcaica del linguaggio burattinesco.
Come a dire: “da qui siamo tutti partiti”.
Con un sorriso, ricordo le origini della Compagnia, (nel lontanissimo ’74) quando giovani laureandi con una tesi sui burattinai della tradizione emiliano-romagnoli, Elvira Mascanzoni, Pietro Fenati e Sergio Diotti cominciarono a fare sul serio questo mestiere.
Tocca ora al tema della SUPERBIA. Le palline vengono sostituite da burattini/diavoli (della Collezione Monticelli) che su una musica più sostenuta combattono a colpi di bastonate, in un vero e proprio sabba infernale.
La battaglia si conclude con i bastoni orgogliosamente alzati. Ma l’acme si smonta e i pupazzi di legno vengono portati fuori scena dagli attori e accuditi teneramente.
Come a dire: (questo richiamo ai linguaggi e alle modalità di lavoro del Teatro di Figura è continuo) “ finito lo spettacolo, intenso quanto si vuole, questi attori di legno vengono riposti nella loro quiete..”

Si ricompongono le losanghe azzurre e arancio del pavimento.
Tocca ora alla TENTAZIONE, il perfido Serpente.
Da un cestino di lavoro (come quelli che si usano nei laboratori di costruzione con i bambini delle Scuole Materne) gli attori traggono una forma allungata fatta di altrettanti origami intrecciati, un lungo festone che muovono come un drago cinese.
Nella GIOIA risuonano le terzine della “Gloria di colui che tutto muove”, sull’unisono melodico di flauto e violino, mentre gli attori (spesso servi di scena, a far movimenti di servizio per gli oggetti e le figure) distendono un arioso lenzuolo di stoffa leggerissima sopra la geometria del suolo.
Vengono tratti da scrigni lignei polveri dai colori diversi e sparse sul lenzuolo a terra. Con la forza e la leggerezza dell’afflato divino, il lenzuolo, col suo prezioso carico, prende aria come una vela e si innalza.
E’ Beatrice che illumina Dante sulla meravigliosa corrispondenza dell’Universo al piano celeste.
L’INCANTO vede, al fine, una attrice che si ammanta del lenzuolo arioso, in una cadenza musicale ritmata ma delicata, finchè la stessa cosa capita all’attore/musicista.
Ecco Dante, stentoreo e ispirato, che riceve la consacrazione a poeta sommo e l’alloro. Questa presenza, che poteva essere appena un po’ imbarazzante, è mitigata da un piglio autoironico.
Come a dire: “stiamo affermando una cosa, ma assieme anche un’altra”.
Un fremere di ventagli bianchi, riprende l’attenzione e ci porta via via, sulle ali di candide colombe.

Piero ed Elvira

DANTE SENZA DANTE
Un Dante, nel 700mo anniversario, con Dante e senza Dante. I frammenti di terzine sono lette da un bambino di 10 anni, senza pathos particolare e senza ritmo teatrale. Siamo lontanissimi dalle celebri letture (Gassman, Albertazzi, Benigni) dove la parola detta e le sue sonorità deve rendere il senso delle parole scritte.
Ai brevi, quasi oscuri, frammenti di testo si accompagnano, da protagoniste, emozioni scaturite dalla animazione di semplici oggetti, di teli , di scene mobili geometriche, di burattini, di ventagli..
Si legge nelle note di regia: “Tutto ha origine da quel gioco-conta fatto con un foglio di carta ripiegato che, a seconda di come lo muovi, fa apparire il rosso dell’inferno o l’azzurro del paradiso. Il rosso diabolico e l’azzurro celestiale. Siamo sempre un po’ indecisi”
Questo giochino di carta diventa un magico pentacolo sul pavimento, ma anche il poliedro nel quale si muovono molte scene, una specie di gabbia oulipesca, che crea rigore ma che può essere aggirata a piacimento.
Vi è concretezza e vaporosità nelle cose che si muovono, tratto caratteristico di sempre della poetica della Compagnia.
Vario l’uso dei materiali (ben valorizzati dal light design) e dei diversi linguaggi, padroneggiati con una certa nonchalance del porgere, altro tratto tipico.
Molto bravi e ben diretti i quattro attori/animatori/danzatori che si muovono dentro le geometrie (che spesso diventano scene a tre dimensioni, paraventi e baracche).
Le musiche originali, del ravennate Matteo Ramon Arevalos, si incontrano bene con i movimenti e le figure.
Si vorrebbe, nella scena dei burattini/diavoli, un po’ più di convincimento e di sonorità del legno. E nell’ultima vaporosa scena dei ventagli, una strizzatina d’occhio al pubblico (che chiarisca la consapevolezza degli autori nel citare lo straordinario uso, nella danza finale, dei maiohgi giapponesi).

Una compagnia d’antan, fresca di immaginario
È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza che Pinocchio ricevé, in mezzo a tanto arruffio, dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale
(Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Carlo Collodi, 1881)

Questo brano di Collodi è la pietra angolare della compagnia Drammatico Vegetale.
Nasce nel 1974 e partecipa del grande movimento di quegli anni, che cercava nuove forme espressive del Teatro di Figura. Nell’immagine, nell’uso di materiali e forme nuove, la compagnia trova una sua cifra stilistica definita, muovendosi con due forti interessi. Da una parte l’attenzione per il pubblico dei bambini piccolissimi. Dall’altra una cura quasi esasperata degli aspetti estetici, molto legati alle arti figurative, dalle avanguardie, all’arte povera.
Abituata a collaborazioni artistiche diverse (fra gli altri Ezio Antonelli, Fiorenza Bendini a John Surman), affronta ad ogni spettacolo nuove difficoltà tecniche ed espressive.
Dicono di sé: “l’animazione quasi diventa un aspetto secondario, avendo il burattinaio abbandonato la baracca, divenendo sempre più un attore che interagisce con i propri personaggi-oggetti. In questo contesto si è sviluppa la nostra ricerca, fedele al concetto del teatro di figura, al suo rapporto col mondo dell’arte, alla ricerca costante nell’ambito del visivo. Altro aspetto importante è per noi il particolare rapporto col suono e con la musica. Sempre i nostri spettacoli contengono scritture musicali originali, frequentemente esecuzioni dal vivo, anche in forma di concerto e con orchestra.
Piero ed Elvira (Sergio Diotti prese presto altre strade) hanno anche, quando sono in scena, un rapporto peculiare col pubblico. Non hanno mai troppo curato le loro performance attoriali: al contrario la loro espressività (per lasciare sempre il primo piano alle figure) è discorsiva, confidenziale.
Come dire: “mentre vi facciamo la voce cattiva del Lupo o stupita di Alice, siamo sempre noi. Se volete, potete dar voce ai personaggi perfino voi..”.
Questa consapevolezza di giocare molto sulla estetica del vedere si è spostata nel modo di recitare dei loro giovani collaboratori. Ciò mantiene semplicità e leggerezza di fondo, unite alla voglia di non prendersi mai troppo sul serio.
Come dire: “attenzione, le uniche cose vere, qui dentro, sono solo le figure”..

Stefano Giunchi

InfernoParadiso
coproduzione
Drammatico Vegetale / Ravenna Teatro, Teatro del Drago in collaborazione con il Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali di Ravennadi Pietro Fenaticon Camilla Lopez, Flaminia Pasquini Ferretti, Gianluca Palma, Mariasole Brusa
regia
Pietro Fenati, Andrea Monticelli
assistente alla regia
Elena Pelliccioni
scene
Ezio Antonelli, Elvira Mascanzoni, Pietro Fenati
figure DrammaticoVegetale,Teatro del Drago
musiche originali Matteo Ramon Arevalos
esecuzione musicale Ensemble Mosaici Sonori
light designer Alessandro Bonoli
audio e luci
Andrea Napolitano
organizzazione
Roberta Colombo, William Rossano
promozione
Ravenna teatro – Teatro del Drago

Le foto che illustrano l’articolo sono state gentilmente concesse da:
Carlo Lastrucci e Marco Parollo

un video dello spettacolo si può vedere in:

https://vimeo.com/492405554/fc490e0059

Scritto da

Classe ‘48, ha studiato filosofia e antropologia culturale a Firenze. Dopo esperienze nella comunicazione e nell’associazionismo culturale, dedica per lunghi anni il suo tempo al Teatro di Figura. Partecipa alla fondazione e anima per decenni il Festival “Arrivano dal mare!”, l’UNIMA Italia, l’ATF/AGIS. Ha affermato in Italia l’uso del termine teatro di figura, dirige da 20 anni l’Atelier delle Figure/Scuola per Burattinai e Contastorie. Autore e regista di spettacoli, continua oggi la sua attività di ricercatore e pubblicista.

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