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Il tempo che ci vuole - Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni - Credits Valeria Gifuni, foto via ufficio stampa Biennale Cinema

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L’omaggio di Francesca Comencini al padre e al cinema

«La pellicola di Francesca Comencini, cui va senz’altro riconosciuto uno stile registico personale, ancorché in linea con la visionarietà – nessuno me ne voglia – di Paolo Sorrentino, oscilla tra il reale e il surreale, con eleganza e con il prezioso rinforzo della fotografia nientemeno che di Luca Bigazzi».

Tempo di lettura: 4 minuti

Aveva già dimostrato Francesca Comencini di sapere scavare a piene mani nella propria esistenza. Un’operazione che richiede lucidità, accortezza, coraggio. E l’aveva fatto ai tempi di “Pianoforte”, quarant’anni fa, trasversalmente, alla prima regia. Addosso ancora le esperienze di gioventù nel frangente complicato e conflittuale degli Anni di piombo e l’altrettanto complicato rapporto col padre, che peraltro non aveva mai compreso il senso dell’autobiografismo.

Occorreva presumibilmente che il tempo rimarginasse le ferite, appiattisse le differenze, restituisse la realtà sottraendola a un punto di vista soggettivo e parziale, ridisegnasse i protagonisti, con tutte quante le sfumature che competono loro e agli esseri umani in generale. 

E per far ciò, “Il tempo che ci vuole”, fuori concorso a Venezia e dal 26 settembre nelle sale italiane, contamina generi, valica i confini del biopic e approda nelle rassicuranti distese della finzione, come fossero indistinguibili arte e vita, la prima – in base alla lezione del padre – sempre in posizione subalterna. Che poi è la maniera straordinaria dei grandi cineasti di concepire il cinema. Alla stregua di un gioco, di un gioco serio, impegnativo, talora macchinoso, ma pur sempre un gioco.

E Francesca Comencini quel gioco l’aveva vissuto direttamente, frequentando il set dello storico sceneggiato trasmesso sul Programma Nazionale nel 1972“Le avventure di Pinocchio”, che fornisce un meraviglioso assist alla regista per delineare il ritratto di Luigi Comencini, artista ed essenzialmente uomo.

Un uomo capace di perdersi nel mondo dei bambini, di giocare con la figlia Francesca, di impiastricciarle il viso con la schiuma da barba, di schiuderle le porte del sogno, dell’immaginazione, anche quando queste – oggettivate da una balena intera dentro al tendone del circo – fanno ancora paura.

Quello compiuto dalla protagonista, a fianco della quale incede solo il padre, è un viaggio dall’infanzia all’età adulta che si intreccia alla storia d’Italia, a quella del cinema e naturalmente di Luigi Comencini, cui si intende rendere omaggio. Tra autobiografia e biografia, tra grande storia e piccoli universi familiari, tra realtà e immaginazione, tra l’ammirazione di una figlia e il senso di protezione di un padre, tra il conflitto e la complicità. Il tutto attraversato, e accarezzato, dalla potenza creativa delle storie illustrate che all’occorrenza trasfigurano la realtà, e da vecchie pellicole salvate dal macero, come il Pinocchio di Giulio Antamoro del 1911, come L’Atlantide di Georg Wilhelm Pabst del 1932, che gettarono le basi per la fondazione della Cineteca di Milano.

Dialoghi pregni di un lessico esistenziale che appartiene sì all’universo intimo della protagonista, ma che pure esprime i disagi, le tenerezze, le incomprensioni, persino la ferocia di due diverse generazioni. 

Da piazza Fontana al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro, Francesca Comencini assegna un ruolo precipuo alla storia e lascia che su di essa posino gli occhi due mondi in perenne collisione, quello suo e quello del padre, sui quali peraltro si abbatte il flagello della droga, che tutto ridimensiona, tutto paradossalmente amplifica, tutto mette a soqquadro. 

L’uomo ridiventa minuscolo, d’una fragilità compassionevole. Il cinema si mette da parte e, nella patria per antonomasia del sogno e del Can-can, Parigi per l’appunto, dopo il processo di autodistruzione, dopo il Sessantotto e dopo la lotta armata, dopo il caos, subentra di nuovo la vita, col suo carico di utilissimi fallimenti (Fallire sempre non importa. Tentare ancora, fallire ancora, fallire meglio) che, in questo nostro tempo di performatività a ogni costo, risulta un monito ancora più prezioso.

La pellicola di Francesca Comencini, cui va senz’altro riconosciuto uno stile registico personale, ancorché in linea con la visionarietà – nessuno me ne voglia – di Paolo Sorrentino, oscilla tra il reale e il surreale, con eleganza e con il prezioso rinforzo della fotografia nientemeno che di Luca Bigazzi.

Dulcis in fundo, occorre riconoscere un grande merito agli attori: quello di aver vissuto il personaggio, nel rigoroso rispetto della misura e dentro ai ranghi di certo cinema. Del cinema che sta in piedi, senza effetti speciali, curando piuttosto i dettagli, alimentando la bellezza, e la verità.

La bambina che interpreta Francesca Comencini, Anna Mangiocavallo, è di una spontaneità indescrivibile: come se giocasse sul set, come se non recitasse, come se si trovasse per sbaglio nella scena della “luce a cavallo” e immaginasse suo padre nelle vesti di un cavaliere a consegnarle una sfera luminosa, come se il film da girare contenesse ancora film, come se tutto fosse solo e semplicemente ciò che è: un gioco.

Ed è perfetta nel ruolo della figlia di Comencini anche Romana Maggiora Vergano, che avevamo già apprezzato in “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. 

Qui il carico emotivo è di certo maggiore. L’apporto alla perfetta riuscita del film, anche per questa ragione, determinante. In grande sintonia, tra l’altro, con un Fabrizio Gifuni in stato di grazia e nei cui occhi alberga tutta la gamma dei sentimenti ascrivibili all’essere umano. Avvinghiati alle cose, alle circostanze, ai luoghi, al tempo. Come l’accorata malinconia che pervade le sue lacrime sui titoli di coda di “Paisà” di Roberto Rossellini. A ratificare l’amore per il cinema dentro quell’atto d’amore che è la pellicola stessa di Francesca Comencini. A rimarcare il valore della memoria, personale e sociale, di cui è intriso tutto il film.

La colonna sonora è di Fabio Massimo Capogrosso ed è perfetta, e scandisce il ritmo della narrazione, senza sbavature, dando contemporaneamente voce alle emozioni, scortando le atmosfere. Con qualche hit del tempo a contestualizzare i ricordi, a cambiare la marcia sugli anni.

Fino a quando tutto si ricompone e Francesca Comencini recupera quella complicità col padre che aveva smarrito tra i labirinti delle insicurezze, dei fallimenti, della vergogna. Quella complicità matura che reca il comune denominatore dell’amore. E del cinema. E quello dell’amore per il cinema, a chiusura del cerchio. Quando ci si rappacifica col mondo e con sé stessi. Quando si è finalmente pronti per spiccare il volo. Quando la balena, in cielo, non fa più paura.

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