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Iddu - Toni Servillo ed Elio Germano - Credits Giulia Parlato - Foto via ufficio stampa Biennale Cinema

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La criminalità in chiave grottesca di “Iddu. L’ultimo padrino”

“Iddu. L’ultimo padrino” ridisegna, infatti, la storia di una latitanza, e più in generale della criminalità, e lo fa attraverso una carrellata ragionata sulle piccole grandi meschinerie che la contraddistinguono. 

Tempo di lettura: 3 minuti

Finalmente un cambiamento di rotta sul fronte della narrativa criminale. Finalmente la perdita di prestigio, sotto gli occhi del grande pubblico, dei mafiosi, ridotti a maschere immorali, a caricature risibili di sé stessi.

La demitizzazione, insomma, di quell’universo di malavitosi che la macchina da presa troppo spesso trasfigurava in ammasso di eroi. Con molti giovani pronti ad adorarli, a emularli nelle pose più villane e deprecabili, a sognare vite “inimitabili” come le loro. 

Ove abitualmente fallisce la rappresentazione televisiva della criminalità organizzata, riesce dunque il cinema a ristabilire la verità dei fatti, a ridisegnare i volti dei protagonisti, a restituirne la pochezza dentro vite sacrificate e insignificanti. Ché si può essere reclusi persino fuori dal carcere. Ché si può avere tutto e non potere godere di niente.

“Iddu. L’ultimo padrino” ridisegna, infatti, la storia di una latitanza, e più in generale della criminalità, e lo fa attraverso una carrellata ragionata sulle piccole grandi meschinerie che la contraddistinguono. 

Fabio Grassadonia e Antonio Piazza hanno in buona sostanza teatralizzato il male all’interno di una dimensione reale che liberamente si ispira alle vicende di Matteo Messina Denaro e dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino

Entrambi provvisti di fine intelligenza e tutt’altro che illetterati, i personaggi interpretati da Elio Germano e Toni Servillo sarebbero bastati da soli a concretizzare il disegno registico che ne vuole amplificare le difformità, in chiave naturalmente grottesca. Ma i due attori, cui non servono presentazioni, sono pure circondati da un eccellente cast che sa altrettanto bene prestarsi agli intenti parodistici di Grassadonia e Piazza, ai quali nessun personaggio, con buona pace di tutti i criminali, qui sfugge.

Presentato in concorso a Venezia, dal 10 ottobre nelle sale cinematografiche italiane, “Iddu” prende le mosse da un rito di iniziazione che decreta il futuro del piccolo Matteo, con tanto di passaggio di consegne dal padre, Don Gaetano, interpretato da Rosario Palazzolo, al figlio. 

E fin qui ci si muove dentro agli usuali cliché del genere. Con la grammatica della mafia, con un pupo, l’Efebo di Selinunte, da custodire. Perché la statua attraversi e vinca sempre il tempo, la transitorietà dell’uomo. Come vi fosse, oltre la contingenza, oltre l’esistenza, un universo altro da salvaguardare. Allora la mafia, la magia, la spiritualità cominciano ad approssimarsi l’un l’altra. 

Siamo del resto in Sicilia, dove il surrealismo ritrova quella dimora ospitale che Grassadonia e Piazza avevano già sperimentato, con ottimi risultati, in “Salvo” (2013) e “Sicilian Ghost Story” (2017). Non viene meno, così, la reazione di stizza innanzi al deturpamento di uno scenario talmente suggestivo, ma tutto è traslocato su un versante tanto goffo che persino alla ferocia riesce di abdicare in favore della ridicolaggine.

I dialoghi richiamano la commedia e infilano indiscusse verità dentro girotondi di assurde argomentazioni. Lo scambio epistolare, mediante pizzini, tra Matteo e Catello Palumbo reca, inoltre, tracce significative di quella finzione che ammanta tutto lo scenario criminale e che ricalca i toni della farsa dentro alla quale Germano e Servillo si muovono con grande maestria. L’uno dietro ai consueti Ray-Ban, l’altro con l’aria pagliaccesca che gli conferiscono tinta e riporto di capelli. 

Vi si aggiungano i tanto preziosi quanto esilaranti contributi di Betty Pedrazzi, nel ruolo della cinica moglie di Catello, e di Filippo Luna che nel film è Giovannino, il fratello di Matteo: delicato, sentimentale, opportunamente macchiettistico. E non si sottraggono alla macchina da presa che li ritrae alla stregua di maschere della commedia dell’arte persino individui particolarmente crudeli come Stefania, sorella di Matteo, interpretata da Antonia Truppo. 

Salvo poi rilevare che persino i servizi segreti cui spetterebbe la cattura del latitante, e per i quali lavora l’ispettrice Rita Mancuso (Daniela Marra) che rimane vittima dell’astuzia di un losco figuro come Catello, ricoprono tutti un ruolo degno di quella grande pupazzata che nessuno intende davvero demolire.

Poi chiaramente c’è chi si prende le sue rivincite, come Lucia Russo (Barbora Bobuľová) cui tocca sopportare suo malgrado la presenza dentro casa di Matteo e al quale si permette il lusso di fare un piccolo dispetto che assume le dimensioni del peggiore sgarro nel teatro dell’assurdo che mettono in scena Grassadonia e Piazza. 

Nessun assolto, insomma. Tutti, chi più chi meno, colpevoli di tenere in piedi questo balordo meccanismo che guasta la società, che deifica individui ai quali poi spetta di vivere alla maniera dei sorci. Mettendo insieme le tessere di un puzzle o leggendo le Ecclesiaste, per giungere a quella lucida e amara conclusione che rende insignificante ogni cosa, persino, o soprattutto, il male: siamo solo giorni contati di vita inutile.

E in questo bel film, del quale occorre rimarcare la coraggiosa e autentica eccentricità dello sguardo sulle cose, non mancano le pennellate di incanto della fotografia di Luca Bigazzi e, ancor più, d’armonia della colonna sonora di Colapesce che recupera il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta politicamente impegnato e con certi ritmi che già allora avrebbero anticipato il poliziesco di là da venire.

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