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COME SE IL CINEMA AVESSE BISOGNO DEL TEATRO E IL TEATRO DI RESPIRARE A PIENI POLMONI PAROLE, E SILENZI. LA RECENSIONE DEL “MATERIALE EMOTIVO”

Tempo di lettura: 3 minuti

Un composto di gran classe per un soggetto nientemeno che di Ettore Scola, dal quale era già stato tratto il graphic novel “Un drago a forma di nuvola”, con i disegni e gli acquerelli di Ivo Milazzo. Restava, insomma, da riscrivere quella sceneggiatura incompleta cui avevano precedentemente lavorato Scola, la figlia Silvia e Furio Scarpelli: ciò di cui si occupa, nel pieno ossequio della consueta cifra stilistica, Margaret Mazzantini.

Molto di quel che accade, o meglio non accade, si svolge dentro le mura dell’antica libreria parigina di Vincenzo (Sergio Castellitto). Al piano di sopra la figlia Albertine (Matilda De Angelis), il cui nome è un presumibile omaggio alla Recherche; gambe paralizzate e mutismo autoimposto.

Il rapporto tra i due, imperniato sulla lettura dell’uno e sull’ascolto dell’altra, si è fossilizzato in una comune e metodica assenza di vita. La normalità è di fatto una questione personale: “ciò che è normale per il ragno è il caos per la mosca”. E dentro un caos emotivo plausibilissimo i due trascorrono le loro giornate, come quei pesci nell’acquario cui per sopravvivere l’aria è preclusa. Vincenzo è un uomo mite che ha abdicato alla felicità in nome della quotidiana rassegnazione. Castellitto, nei gesti e nelle espressioni mai sopra le righe, sa tradurne tutta quanta la soavità. Il personaggio, fuori dal mondo come si confà a chi di questi tempi non possiede un cellulare, incarna l’ideale di purezza che possiede solo chi trova donchisciottescamente rifugio nelle altrui storie.

Albertine vive il dramma peggiore, quello silenzioso. Ché il dolore, quando è abnorme, tace. Magistrale l’interpretazione della De Angelis alle prese con una fanciulla che manifesta il rifiuto della realtà declinandolo nei sentimenti infiniti del disgusto, della mestizia, della disperazione, senza mai esplicitarlo verbalmente. Fatta eccezione per un medico, un prete, un ladro di libri, un barista (Clementino) e la felliniana Sandra Milo nei panni di una eccentrica quanto fantastica creatura venuta da chissà quale universo, il microcosmo di Vincenzo è popolato dai suoi amati scrittori. Egli stesso li chiama costantemente in causa per trovare risposte a quel coacervo di interrogativi che pure non intende porsi. Il citazionismo non disturba: sfama piuttosto il pubblico meno innocente e stuzzica l’appetito degli inesperti. L’artificiosità di taluni dialoghi, che pure si riconosce, fa da pendant al velo di allucinazione che ammanta la storia. Si è insomma indulgenti con Castellitto, dacché le singole e per nulla cospicue imperfezioni – che pure si rilevano – non guastano un amabile insieme.

Il corto circuito a livello drammaturgico assume le sembianze di un’attrice teatrale (Bérénice Bejo). Nulla di così insolito se qualche regista non decidesse di saltare i tradizionali passaggi di scrittura per affidarsi all’improvvisazione dei singoli attori, indotti dunque a portare sulle spalle il peso delle vite degli altri e, quel che è peggio, della propria. Caos a generare sempre nuovo caos. Fino a quando si scorgono, sul soffitto e in lontananza, le prime stelle danzanti. Non è l’amore a muovere il mondo, non almeno il mondo dei protagonisti sgorgati dalla penna della Mazzantini. A rianimare, in un tempo sospeso, le anime fragili dirette da Castellitto sono la leggerezza, la bizzarria, finanche l’insania che vuotano l’aria satura di passato e di ragionata resa.

“Il materiale emotivo” diventa allora metafora dell’insensatezza del tutto, dell’approssimarsi delle inconciliabilità, dello schiudersi di orizzonti tanto improbabili quanto straordinariamente verosimili.

Perché la finzione alla quale aspirerebbe il teatro altro non è che la verità d’una esistenza che ingiunge, essa sì, l’improvvisazione. E il vortice di luci e rumori che contrassegna una Parigi dall’atmosfera démodé l’unico vortice ineludibile per chiunque voglia semplicemente vivere improvvisando. Dentro un luna park, su un autoscontro che aspetta solo di andare a sbattere con un altro autoscontro. Tra una ricetta di cucina, un ricordo addolcito e un bicchiere di vino. Andando e lasciando andare. Danzando, ebbri, sulle note della struggente “Stars (Live at Montreux) di Nina Simone, prima e persino dopo che il sipario si chiuda.

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