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Esterno notte

Tempo di lettura: 5 minuti

“Il traditore” nel 2019, poi “Marx può aspettare” nel 2021, adesso questo “Esterno notte”che sta a metà tra la serie e il film.

Non si può certo negare che Marco Bellocchio, classe ’39, sia un regista versatile e ancora desideroso di sperimentare, di giocare con questo cinema italiano che da qualche tempo ha deciso di battere nuovi sentieri.

I David di quest’anno hanno dimostrato–ammesso ve ne fosse la necessità – di come il nostro cinema nulla più abbia da invidiare ai prodotti d’oltralpe.

È una stagione felice, al di là che impatti con la crisi del mercato cinematografico, e si intuisce possa durare a lungo.

Il contributo saliente del regista de “I pugni tasca”, in termini di tecnica, ingegno ed esperienza, non può pertanto che impreziosire un cinema italiano così in crescendo.

Due parti, un grande progetto

“Esterno notte”, in anteprima al Festival di Cannes, è uscito il 18 maggio nelle sale: una prima parte di ben 160 minuti cui la regia di Bellocchio ha risparmiato anche solo un istante di fiacca. Il 9 giugno sarà la volta della seconda parte.

Il cast è d’eccezione: nei panni di Aldo Moro un Fabrizio Gifuni in stato di grazia; a interpretare Francesco Cossiga un Fausto Russo Alesi straordinario; Toni Servillo, cui servono davvero poche parole di presentazione, è un Papa Paolo VI perfetto. Vi si aggiungano, tra gli altri, Margherita Buy (Eleonora Moro) e Fabrizio Contri (Giulio Andreotti).

E ciò basta perché, nella coralità delle voci in quel tempo di fragori politici e sociali dentro cui Bellocchio si era già introdotto con grande destrezza in “Buongiorno, notte” e che qui possiedono il gusto leggendario dell’epica, ogni personaggio costituisca un mondo a sé.

“Esterno notte” è difatti un meraviglioso nugolo di anime e, come tale, assegna agli individui, uno alla volta, il compito di affrescare il dipinto d’una delle pagine più scomode e per certi versi oscure della storia d’Italia.

Sulla realtà – e questo è a mio avviso il valore aggiunto della pellicola – aleggia intanto un’atmosfera onirica. Azioni e reazioni dei personaggi sono sagacemente enfatizzate e, ove occorre, scortate da una macabra ironia che corre sulle note della nodale colonna sonora di Fabio Massimo Capogrosso.

Un’amicizia sotto il segno della fede

Da una parte il povero Aldo Moro che porta la croce del mondo costruito sulle macerie del secondo dopoguerra, tra una preghiera a Dio e la paura rossa. Era quello il mondo che strizzava l’occhio agli americani e si fregiava di quell’orizzonte di democrazia tanto faticosamente raggiunto quanto tangibilmente logorato sul nascere.

Gifuni consegna allo spettatore un uomo perbene, d’altri tempi, capace di infilare i suoi tormenti dentro a quel cappotto che tiene persino dentro casa, di cucinarsi un uovo al tegamino e di assolvere il proprio dovere di marito, ancor più di padre e di nonno, salvo poi aggredire inutilmente l’insonnia con una valeriana che è poca cosa al cospetto delle angosce quotidiane.

Dall’altra parte Papa Paolo VI, che gli è realmente affezionato, a scandire le tappe della sua personale via crucis: la penitenza col cilicio, lo sforzo nel sorreggere la croce, i tentativi, più o meno contestabili, di salvare il presidente della DC, muovendosi peraltro come un elefante in quella cristalleria che era il Vaticano e della quale Papa Montini rappresentò uno degli elementi senza dubbio più umani.

Servillo diretto da Bellocchio, con incedere elegante, porta sul volto i segni dell’afflizione misurata, del martirio del vicario di Cristo che tuttavia nulla può innanzi alla spietatezza d’un mondo da cui separarsi pochi mesi dopo il ritrovamento, nella Renault 4 rossa triste effigie degli anni di piombo, del corpo dell’amico Aldo Moro.

Toni Servillo e Margherita Buy_ph Anna Camerlingo

Anime a trascinarsi come spettri

E tra Moro e il Santo Padre, l’uno e l’altro sotto la lente d’ingrandimento benevola di Bellocchio, si insinuano i politici scolpiti dentro e fuori i palazzi.

Oltre le scrivanie di quelle stanze pompose e oltre i tavoli attorno cui ci si assume non di rado la responsabilità delle sorti di una Nazione, ci sono gli uomini.

C’è Giulio Andreotti che, appresa la notizia del rapimento di Moro, vomita in bagno. Reazione politica o umana, poco importa. Conta piuttosto spiarlo dalla serratura, in quella scena lì o quando mangia golosamente i suoi gelati.

Ma c’è soprattutto Francesco Cossiga, il vinto della storia per eccellenza: scelse lo Stato, non Moro; come scelse la vita politica, a detrimento di quella privata.

Da “Esterno notte” esce di fatto malridotto quello che sarebbe diventato l’ottavo Presidente della Repubblica Italiana, ma il suo personaggio è cinematograficamente incantevole. Le sue notti dondolano tra il baracchino e il Valium; i suoi giorni tra una seduta psichiatrica e un’allucinazione.

La misura dei gesti pubblici scompensata a ogni battito di ciglia dalla sproporzione dei tratti del suo animo. Non poteva fare di più, né farlo meglio, l’attore palermitano Fausto Russo Alesi. La macchina da presa indugia sui suoi occhi, come su quelli degli altri personaggi. Sono tutte anime che si trascinano come spettri e a delineare la sagoma delle quali, tra il troppo pieno che le inghiotte, concorre l’opportuna e nitida fotografia di Francesco Di Giacomo.

Fausto Russo Alesi_ph Anna_Camerlingo

Il dietro le quinte della storia

Il film sceneggiato da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino è il dietro le quinte della storia, l’infinitesimale da disseppellire una volta scompigliate le carte ufficiali degli eventi.

È l’omaggio, spericolato ma onesto, politicamente scorretto se vogliamo, alle tante tragedie in luogo dell’unica tragedia convenuta.

È la finzione del cinema di Bellocchio che fa a cazzotti con il realismo raffazzonato e predilige piuttosto la strada della visionarietà, meno confortante forse, ma di certo più verosimile se la si inquadra secondo le precise coordinate della storia.

È l’impatto, fotogramma dopo fotogramma, contro icone che si frantumano e diventano, o ridiventano, uomini.

Allora il cinema, questo cinema, può arrogarsi finanche il diritto di riscrivere la storia. E, senza troppi giri di parole, aggiungere qualche tassello a quel puzzle che dal 9 maggio 1978 abbiamo provato a costruire arrampicandoci sugli specchi di una verità che non ci sarà mai raccontata.

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