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SU NETFLIX ANDATE A VEDERE “ETHOS” DI BERKUN OYA

Tempo di lettura: 2 minuti

Logiche presumibilmente commerciali fanno sì che Netflix, al di là degli algoritmi e dei consigli personalizzati, investa a livello pubblicitario su particolari contenuti, trascurandone altri.

Accade pertanto che una serie uscita a metà novembre e mischiata a una miriade di altre serie possa essere sfuggita persino all’occhio più attento. Scriverne diventa un gesto doveroso quando a meritare alta considerazione è un prezioso dramma seriale in otto episodi che mette a nudo l’anima di una Turchia policroma e, in quanto tale, smodatamente contraddittoria.

Ethos – in turco Bir Başkadır – si edifica sull’elegante scrittura di Berkun Oya, cui si ascrive una regia capace di esaltarne il pregio, in un quadro stilistico di ragionato equilibrio ove finanche il trambusto interiore degli individui acquisisce senza sforzo dignità. 

A fendere le esistenze sulle quali posa lo sguardo la macchina da presa ci pensa un’Istanbul profondamente scissa tra il conservatorismo delle periferie e il progressismo delle città: convivono, non sempre senza complicazioni, donne in velo islamico e donne che non indossano coperture. Le une e le altre, così marcatamente dissomiglianti, sono tuttavia accomunate dalle medesime debolezze, dalle medesime intime conflittualità.

Attorno a Meryem, giovane domestica devota ad Allah e prigioniera di un mondo al quale il corpo sembra non rassegnarsi, ruota un folto gruppo di uomini e donne connessi da impercettibili fili che reggono la trama della serie, dei quali tuttavia si rinuncia ben volentieri a seguirne le traiettorie non appena si afferra l’impalpabilità dell’insieme a vantaggio della rilevanza del singolo. 

Una carrellata di volti, dunque, dei quali Berkun Oya non trascura la profondità degli sguardi individuali, abile com’è ad affidare a primissimi piani quell’intensità che può sporgere solo dalle pieghe di un’espressione.  

Non serve, delineate brevemente le coordinate formali entro cui si muove Ethos, peraltro su un tappeto musicale straordinario, che i personaggi si affannino a rincorrere i tempi dell’agire umano e cinematografico. L’armoniosa fotografia offre loro il perfetto teatro per la messa in scena delle anime, nella cura scrupolosa dei dialoghi come nell’incantevole fluire dei pensieri. Ethos non corre. Ethos sembra essere il perfetto contraltare dell’affannosa umana corsa verso una meta sconosciuta. Ethos è l’urgenza di fermarsi e guardarsi dentro, per una volta dentro i margini di un io disegnati dalla vita in cui si incappa. Ed è per questo che, divise da una semplice scrivania, due vite rese antitetiche dal destino si sovrappongano e, nel disordine di pregiudizio, disperazione, perturbabilità, irragionevolmente si sconvolgano. 

Nel comporre il mosaico di tante esistenze, al vigore delle quali concorre non poco l’abilità di un eccellente cast d’attori, in Ethos si scompongono e ricompongono individui come forme d’un gioco infantile che miri a incoraggiare concretezza e creatività. Il risultato è straordinario: nello smembramento delle anime, nel perdurare delle norme di vita, nella circolarità beffarda del destino, nessuno, da un giorno all’altro, è mai uguale a sé stesso.

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