Dieci anni dopo, la prima edizione si è svolta il 30 aprile 2012, l’International Jazz Day è diventato un appuntamento diffuso e celebrato in duecento paesi con migliaia di concerti.
Numeri che raccontano come l’intuizione di Herbie Hancock, nel ruolo di ambasciatore del dialogo interculturale presso l’Unesco, abbia fatto centro. E i motivi sono tanti, non escluso un senso di colpa latente verso un linguaggio musicale che ha profondamente influenzato il Novecento e tutti gli idiomi musicali, ma che ha lungamente pagato l’handicap di essere il prodotto di un ambiente socialmente considerato subalterno.
Il jazz, nel suo secolo e passa di vita, si è imposto con la seduzione della sua espressione: una seduzione che si esprime nella differenza che esiste fra il banale e l’imprevedibile, che risiede nell’andamento inafferrabile del suo ritmo, vitale come il battito del cuore.
Raggiunge l’effetto pieno quando suona come la tromba di Miles Davis, quando grida come il sax di John Coltrane, quando ha la voce di Billie Holiday, quando è obliquo come il pianoforte di Thelonious Monk, quando è esuberante come la musica di Charles Mingus, quando ha il tempo di Art Blakey, l’ironia di Louis Armstrong, il dolore di Charlie Parker, l’eleganza di Duke Ellington, la profondità di Bill Evans, la leggerezza di Fats Waller, l’audacia di Ornette Coleman.
E la seduzione sta anche nella sua storia sofferta: nato nei ghetti, colpito lungamente dalla brutalità del razzismo, si è fatto largo con il sudore, il talento, la forza dei suoi eroi e, alla fine, viene festeggiato come linguaggio universale.
Certo il rischio, come avviene spesso nelle occasioni liturgiche, è trasformare l’International Jazz Day in mero atto di ufficio, in una parata, in un’occasione commerciale: tradirebbe il senso dell’occasione oltre che la sua stessa natura.
Non c’è dubbio, però, che le dimensioni che ha assunto raccontano quanto sia profondo il suo radicamento.
Quest’anno la celebrazione principale, quella ufficiale, si svolge alle Nazioni Unite, nella sala delle assemblee generali dell’Onu che ospitò l’appuntamento inaugurale, dieci anni fa.
Herbie Hancock, pianista la cui carriera rimanda a momenti gloriosi come la sua esplosione al fianco di Miles Davis, ancora una volta sarà il maestro di cerimonia, circondato da artisti di ogni parte del mondo dagli statunitensi Gregory Porter e Lizz Wright, all’indonesiano Joey Alexander, al brasiliano Helio Alves, al francese Laurent de Wilde, alla giapponese Hiromi (sono tutti pianisti), ai batteristi Terri Lyne Carrington e Brian Blade, ai bassisti Marcus Miller e l’australiana Linda May Han Oh, ai sassofonisti Ravi Coltrane e David Sanborn, al chitarrista Mark Whitfield, ai trombettisti Randy Brecker e Jeremy Pelt, allo svizzero specialista di armonica a bocca Grégoire Maret, all’arpista colombiano Edmar Castañeda, al percussionista cubano Pedrito Martínez, al clarinettista siriano Kinan Azmeh.
Il concerto verrà trasmesso in streaming e, doverosamente, dati i tempi, sarà dedicato al tema della pace.
Eppure non potrà non avere altri significati, a cominciare dall’ammonimento, sempre insito in ogni manifestazione che coinvolga il jazz, sul tema dell’uguaglianza dei popoli, indipendentemente dal colore della pelle, oltre a rappresentare un sonoro segnale del ritorno alla vita musicale dopo la violenza dei due anni di covid che hanno lasciato ferite ancora pesanti, soprattutto sul fronte economico.
Oltretutto l’International Jazz Day accade alla vigilia di quella che tradizionalmente è la stagione forte dei concerti, quella estiva.
Diventa quindi un grido di incitamento ad andare avanti. Un incoraggiamento che tocca profondamente anche il nostro paese che prova a liberarsi delle costrizioni sanitarie e che affronta questa giornata con almeno una novantina di iniziative, testimonianza ulteriore di quanto il jazz sia diventato importante nel nostro paese e quale sia la ricchezza e la varietà dei talenti che lo animano.
Segno della voglia di vita musicale normale, pur con tutto il fardello della crisi passata ma non smaltita (con la speranza che le istituzioni non considerino archiviati tutti i problemi) e l’incognita che una nuova crisi, quella energetica indotta dal conflitto in Ucraina, non abbia a pesare ulteriormente.