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AMORE E ANARCHIA NEL SUD RURALE DEGLI ANNI CINQUANTA

Tempo di lettura: 3 minuti

Il Sud rurale degli anni Cinquanta, le disuguaglianze sociali, lo sfruttamento, la sopraffazione, l’amore, la morte e finanche il sogno nel film “L’ultimo paradiso”, disponibile su Netflix dal 5 febbraio. Soggetto, sceneggiatura e regia sono di Rocco Ricciardulli, lucano d’origine. Contribuisce, insieme a lui, a ridisegnare i contorni di quella Puglia d’uliveti e passioni l’andriese Riccardo Scamarcio, nella triplice veste di produttore, co-sceneggiatore e attore protagonista. 

Uno scenario invitante, dunque, per la storia d’amore tra Ciccio (Scamarcio) e Bianca (Gaia Bermani Amaral), tanto più che l’uno è sposato con Lucia (Valentina Cervi) e l’altra è la figlia del crudele proprietario terriero Cumpà Schettino (Antonio Gerardi). Pochi ingredienti a generare una miscela esplosiva in un borgo contadino ove anche i muri stonacati delle case hanno orecchie.

Ciccio non si lascia scoraggiare dalle circostanze, tutte a suo sfavore: “Bianca quando ride, se è notte, fa uscire il sole”. E questo basta ad alimentare il sogno di una vita altrove, magari in quella Parigi grazie alla quale avrebbe potuto avere un senso “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet, suonata dal giradischi sotto il cielo terso della campagna pugliese. 

Parallelamente al desiderio di fuga quello di ribellione. Le paghe di chi lavora una terra ricca e generosa di acqua sono insufficienti, i reali profitti sono prerogativa di pochi. Ciccio non si rassegna allo sfruttamento, pretende che chi zappa la terra faccia anche il prezzo. Sfida, in una parola, i “padroni”. Mentre progetta la sua fuga d’amore. 

Note malinconiche scortano, intanto, la fatica di un universo femminile che lava i panni al fiume, monda le olive raccolte e si dedica alle faccende domestiche servendo e riverendo i mariti. Docili e ligie anche le mogli tradite; una sfuriata episodica e un altro giorno scivola nell’abitudinarietà dei gesti e nelle urgenze concrete che divorano i dispiaceri. I volti sfatti e invecchiati anzitempo, la trasandatezza, le brusche maniere confessano tutto il dolore taciuto. 

Di padre in figlio si tramandava del resto anche l’infedeltà. Era un mondo, quello, che non condannava il tradimento. Per Lucia era peccato, per Ciccio no.

Così, catapultati in quegli anni e nei luoghi cui la fotografia di Gian Filippo Corticelli quasi assegna il ruolo di spettatori complici e muti allo stesso tempo, noi non giudichiamo. Ci saremmo aspettati però d’essere almeno approssimati al fuoco che arde dentro le anime dei protagonisti. Avremmo voluto conoscere ciascuno più da vicino, percepirne i fervori. “Bia’, quando sto con te è come se il tempo si ferma. E sento una musica”. Ecco, allo spettatore quel tempo e quella musica dovresti farli pure “sentire”. 

Quando a Ciccio si sostituisce il fratello Antonio (sempre Scamarcio), contegno differente e volo già spiccato verso un altrove operaio, ci si aspetta che il fluire dapprima sorvegliato e poi rapido, quanto meno nell’agire, di questo personaggio trascini con sé un mucchio di cose. Invece il suo passaggio sembra perfino non lasciare impronte. 

Si affastellano, intanto, i ricordi. Accanto a Bianca, che Gaia Bermani Amaral riesce a dotare d’una immensa potenza espressiva, perdura la presenza di Ciccio. C’è il suo respiro di là dall’albero da respirare, c’è il primo incontro da ricordare e l’ultimo sogno, in abito lungo rosso, ancora da sognare. Il passato non perde occasione di riaffiorare. Ma finanche un grande segreto è buttato lì, insieme al resto. Insieme a tutta quella materia cui la sceneggiatura non ha dato risalto, scegliendo la strada della moderazione, mai calcando la mano; anche a costo di frustrare le attese di spettatori ai quali non bastano i primi piani di Scamarcio per scandagliare i fondali delle anime dei due fratelli. 

Quando, in prossimità dei titoli di coda, la realtà vira verso un orizzonte surreale e piovono petali su Bianca ci si illude di assistere a ciò per cui si era pazientemente atteso durante tutto il film. Ma è solo un altro omaggio al richiamo dei luoghi e della gente che incorniciano la storia, così seducenti nell’amalgamare il composto da dirottare lo sguardo una, due, tre e tante volte ancora. Fino a quando il film finisce e tu ricordi solo quelli. Negli occhi la campagna pugliese, nelle orecchie le voci della gente. E Ciccio? E Bianca? E Antonio? Troppo morbido il tocco della scrittura per donare loro quella profondità che probabilmente avrebbero meritato.

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