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MIMMO CUTICCHIO: I PUPI NON MUOIONO, SONO IMMORTALI

Tempo di lettura: 5 minuti

Dall’8 aprile sul nuovo sito www.italiafestival.tv e sulla piattaforma RaiPlay, in occasione dei 50 anni di attività dalla formazione della Compagnia Figli d’Arte Cuticchio, saranno trasmessi in streaming dieci spettacoli per raccontare mezzo secolo del teatro del Maestro Mimmo Cuticchio, il più importante esponente contemporaneo della tradizione dei pupari e dei cuntisti siciliani.

Dal 1971 la Compagnia Figli d’Arte Cuticchio coniuga tradizione e sperimentazione, nel segno della contaminazione con altri linguaggi, dalla musica alle arti figurative. In occasione di questo anniversario, la Compagnia apre il suo archivio per mostrare al pubblico, sperimentando ancora una volta, spettacoli che costituiscono tappe significative della storia e dell’evoluzione del percorso artistico di Mimmo Cuticchio e dell’Opera dei pupi.
Notizie di Spettacolo ha raggiunto il Maestro Mimmo Cuticchio

Italian actor Mimmo Cuticchio during the photocall to promove the film “Terraferma” in Venice 04 september 2011. The film “Terraferma” by director Emanuele Crialese is on competition at the 68th International Film Festival running at Lido in Venice from 31 august to 10 september 2011. ANSA/ANDREA MEROLA

Tecnologia e tradizione. Un connubio inevitabile in tempi di pandemia o un’ulteriore occasione per sperimentare? 

Non si smette mai di sperimentare. Sono i tempi a richiederlo. Fino agli anni Sessanta il nostro era un teatro viaggiante e noi eravamo “camminanti”, girovaghi. Allora non c’era il cinema, non c’era la TV, non c’erano molti svaghi. Mio padre si spostava nei paesani della Sicilia occidentale e il teatro dei pupi era il teatro. All’avvento del cinema i proprietari della sale lamentavano la nostra presenza nelle stazioni dei Carabinieri e il Maresciallo, dopo, ci invitava ad andare altrove per non danneggiare gli incassi del cinema. Fu allora che diventammo ancora più girovaghi. 

Mio padre capiva bene il valore del cinema, meno quello della TV che – mi era ben chiaro – ci avrebbe dato la mazzata. La TV dava l’idea di poter diventare un gigante. Mi convinsi quindi che avremmo dovuto entrare noi in TV, nei nuovi linguaggi. Parole, le mie, che risuonavano però come bestemmie alle orecchie di mio padre.  

Fu nel 1971, mentre lui proseguiva le repliche degli spettacoli confidando su un pubblico perlopiù di turisti, che io iniziai ad andare nelle scuole. Non abbandonai mai mio padre, ma nello stesso anno fondai insieme ai miei fratelli la Compagnia Figli d’Arte Cuticchio.

I tempi cambiano. L’Opera dei Pupi e il teatro in genere non può non tenerne conto… 

Tutti a quel tempo chiudevano. Io aprivo un teatro. O si muore, in fondo, o si cambia. Ho vissuto come un contadino che, innanzi ai cambiamenti di clima o domanda, ha smesso di piantare aranci e ha puntato sui kiwi. 

Nel caso del teatro, quando rivolgersi ai pochi affezionati ormai non poteva più bastare, ho persino rifondato un pubblico. Andare nelle scuole, per esempio, si rivelò necessario. Negli anni Sessanta, coi flipper e i juke-box, nacquero nuove forme di svago. I giovani andavano educati all’Opera dei pupi. Così iniziai sceneggiando e allestendo l’Iliade, poi la Gerusalemme liberata, poi ancora l’Odissea, le storie del ciclo carolingio, la Chanson de geste. Introducevo lo spettacolo e dopo mi fermavo a parlare con gli studenti. Intanto il mio teatro cambiava insieme al resto: portai musiche moderne, usai i Pink Floyd e altri dischi. Il piano a cilindro era troppo delicato per andare in giro; per un po’ adoperai le registrazioni da piano a cilindro, poi addirittura i dischi.

Restavano insomma tecniche, saperi tradizionali e al contempo se ne aggiungevano di nuovi.

Io e i miei fratelli continuavano a costruire i nostri pupi. Io amavo lo sbalzo dei metalli e mi dedicavo soprattutto alle armature. Fino a quando i pupi nascono vuol dire che sono vivi. I pupi non muoiono, sono immortali.

Possiede tutti i pupi costruiti o alcuni dimorano altrove?

Da qualche anno i pupi di famiglia si trovano a Palazzo Branciforte a Palermo, in esposizione permanente. L’intera collezione della famiglia Cuticchio è stata acquisita dalla Fondazione Sicilia. Era peraltro volontà di mia madre che i pupi restassero uniti. Qualche pupo è ancora in giro per il mondo e risale al tempo in cui mio padre fu costretto a venderli. Ne ho recuperati personalmente una ventina a Parigi.

I miei pupi si trovano nel mio teatro in via Bara all’Olivella. Li guardo, li spolvero sempre. Sono oltre 1200: 400 costruiti da me, altri antichi trovati in giro, 800 costruiti dal ’73 per Cagliostro fino all’ultimo spettacolo sulla fuga di Enea

Mimmo e Giacomo Cuticchio

Che cosa è cambiato in cinquant’anni nel teatro e, più in particolare, nel mondo dell’Opera dei pupi? 

Per certi aspetti l’Opera dei pupi richiama la tradizione classica. Nel mondo mi si riconosce tuttavia la capacità di usare un metodo tradizionale per narrare storie attuali. Penso a Carlo Gesualdo, principe di Venosa, sul tema del femminicidio o ad Aladino di tutti i colori sull’integrazione, sull’unione delle culture occidentale e orientale.

Da mio padre a me è cambiato tutto. Fra le altre cose, è cambiato il pubblico. Un tempo l’Opera dei pupi era lo svago prediletto di contadini, pescatori, semi-analfabeti. Si apprendevano a teatro le storie, i sentimenti, i personaggi, persino la geografia. Ricordo che mio padre si ostinava a dire “Parigi di Francia” e a me sembrava superfluo, dando per scontato che tutti conoscessero la capitale della Francia. Fu proprio mio padre a dirmi che in pochi, allora, lo sapevano. 

Ariosto e Boiardo si conoscevano attraverso i pupi. Il pubblico viveva proprio in maniera diversa il teatro e io di quel pubblico ricordo ogni cosa. Ricordo che quando usciva l’angioletto di un paladino che moriva tutti si toglievano la coppola e si facevano il segno della croce. L’Opera dei pupi letteralmente si viveva, commovendosi, ridendo, persino litigando. E attraverso i pupi si vivevano le storie. Non importava nemmeno chi li muovesse. C’erano solo loro: i pupi.

Oggi il linguaggio è diverso, i tempi sono diversi. Un tempo uno spettacolo durava due ore e mezza, adesso se sfori l’ora rischi di perdere il pubblico. Conta tuttavia che lo spettatore, prendendo in prestito le parole degli chef, si alzi da tavola sazio ma non pesante. 

Ora lavoro sull’illuminotecnica, sulle scenografie e su molto altro, servendomi di tutta una serie di maestranze: è come una nave, col suo capitano e con tutti i marinai dentro. 

Cambia ogni cosa, non smette mai di cambiare. Anche nel kathakali, danza indiana tra le più antiche, c’è una piccola variazione. 

Quanto ha inciso e incide la contaminazione con altri linguaggi?

Felicemente unito ad altri linguaggi, non contaminato – lo preferisco. Ho portato dentro il mio teatro la musica medievale, i madrigali, la musica rinascimentali, il jazz di Salvatore Bonafede ed Enrico Rava. Ho lavorato con pittori, anche d’avanguardia, come Marco Incardona, Toti Garraffa e Tania Giordano; con musicisti come Luigi Cinque. Vi si aggiunga il cinema di Ciprì e Maresco, la Biennale di Venezia. In Terraferma di Emanuele Crialese ho potuto trasformare il mio corpo in pupo. Dalla collaborazione con Virgilio Sieni è nato Nudità: noi due e tre marionette.

PALERMO 10/2012 PHOTO: ERIC VANDEVILLE

Ci sono giovani che possono far sopravvive l’Opera dei pupi?  

Molti giovani che hanno iniziato con me oggi sono attori, registi che operano nel teatro di figura. Non mi sono mai piaciute le copie: ognuno deve trovare la propria strada, con una personale cifra stilistica. 

Quanto sono importanti oggi, in un tempo che semina incertezze, i valori trasmessi dalla tradizione?

È fondamentale far rivivere il passato. Pompei, per esempio, va fatta conoscere alle nuove generazioni prima che l’uomo dimentichi. Perché l’uomo dimentica. 

È nuovo tutto ciò che scopriamo dal passato, a volte anche più nuovo di ciò che si usa definire avanguardia. Il passato rimane un imprescindibile punto di partenza. 

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