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LA SADICA MESSA IN SCENA DEL FALLIMENTO GENITORIALE

Tempo di lettura: 4 minuti

La chiusura delle sale cinematografiche italiane ha precluso il grande schermo a molti film. Ghiotta occasione per le piattaforme che continuano a sfornare prime visioni. Si guadagna qualche spettatore in più, si rinuncia ahimè a quella magia cui nessun 70 pollici ultra 4k HD è in grado di ricreare dentro casa.

Disponibile su Amazon Prime Video dal 4 gennaio il film “La stanza” di Stefano Lodovichi, girato in appena due settimane e in piena emergenza sanitaria. Un pot-pourri di generi: dal thriller psicologico all’horror temperato, dal dramma familiare alla sci-fi da salotto che recapita inquietanti visioni di futuro non all’umanità intera, ma a una coppia manifestamente in crisi. 

Alla base della pellicola un interesse per la volontaria esclusione sociale degli hikikomori. La rottura degli equilibri familiari, pregressa rispetto al dipanarsi della trama, ha di fatto generato l’isolamento di Stella (Camilla Filippi), volto rigato dalle lacrime e maquillage impiastricciato, in abito da sposa sul davanzale della finestra in una prima scena che richiama la ricercatezza formale di Lars von Trier, lasciando per questo ben sperare sugli 85 minuti di là da venire. 

A pregiudicare le intenzioni di Stella il suono ininterrotto del campanello, richiamo apparente alla vita o predizione di ulteriori calamità. Lo sconosciuto che irrompe nella lugubre e malandata casa in stile Liberty impone senza troppo tergiversare la sua presenza. Giulio (Guido Caprino) non manifesta sulle prime squilibrio, è piuttosto smarrito, arruffato dalla pioggia, assetato. Una considerazione affabile sul sapore dell’acqua di casa, un fiacco congedo e una frase buttata lì, con apparente noncuranza, a chiamare in causa il marito della donna, e Giulio può senza troppo sbracciarsi occupare una stanza d’appoggio. 

Ad apparecchiare la scena per i plot twist che sembra garantire “La stanza” basterebbe il luogo traboccante di ambiguità che accoglie i personaggi. Ma lo sguardo di Lodovichi è correttamente proteso verso un altrove fatto di mezze parole, di silenzi, di sguardi dapprima tra i due e poi, all’arrivo del marito (Edoardo Pesce), rimesso a quell’efferato triangolo di anime che costituisce la parabola ascendente dell’inspiegabile e brutale livore. 

Le distanze si accorciano, i segreti e le bugie della coppia distruggono persino le rovine. Tutto imputridisce, insieme ai muri di una casa che non è più dimora sicura e dentro la quale si mescolano presente, passato e futuro, nell’intima e surreale distopia del vivere. 

Nessun tappeto musicale a sostenere l’escalation di violenza. Appena un intermezzo, depistante se vogliamo, che Lodovichi assegna a “Stella stai” di Umberto Tozzi, al ritmo della quale Giulio simula brio e normalità. 

Marito e moglie, formalmente vittime dell’assurda furia dello sconosciuto, sono tuttavia i veri carnefici. Inchiodati da colpe e omissioni, assistono alla sadica messa in scena del loro fallimento genitoriale. Giacché, uno degli innumerevoli plot twist, è la segregazione del figlio in quella stanza che avrebbe dovuto proteggerlo dal mondo e, col senno di poi, finanche da sé stesso. 

Lungi dal volere svelare i segreti e la verità ultima sulle fondamenta della quale s’erge la sceneggiatura del film, si sottolinea tuttavia l’orrore che scatena una realtà senza più veli. E quest’orrore, cinematograficamente visivo, risulta persino secondario rispetto ai mostri che si agitano dentro le anime dei protagonisti. 

È un profluvio di parole, di lacrime, di terrore inciso sugli sguardi. È il convincimento indotto d’essersi accartocciati nelle miserie matrimoniali e d’aver guastato l’esistenza di un figlio cui nessun isolamento avrebbe potuto assicurare la salvezza. 

Quello di Lodovichi è un film coraggioso, per certi versi spericolati, che affonda la lama sulle fragilità della coppia in crisi, sulle psicopatologie genitoriali e gli effetti nella relazione con i figli, sulle vane schermature che l’individuo pone tra sé e la realtà, sul peso insostenibile della menzogna tra le quattro mura di casa. 

A puntellare l’audacia registica un eccellente cast d’attori e, principalmente, la maestria del direttore della fotografia Timoty Aliprandi, cui è toccato l’arduo compito di destreggiarsi all’interno dei perimetri di una casa, ricreata in due teatri, in un giorno di pioggia. Luci artificiali morbide, per nulla forzate, e un effetto sorprendente nel posarsi sulla pregevole scenografia di Massimiliano Sturiale

L’insieme controbilancia insomma lievi irrisolutezze della sceneggiatura e qualche colpo di scena che perde l’estrema boccheggiante occasione di assegnare maggiore credibilità alla trama. 

Inutile guardare ai maestri italiani del genere come Bava, Argento, Freda, Margheriti, Avati o Fulci. Volgere ostinatamente lo sguardo al passato ha lasciato che per lunghi anni il nostro cinema restasse incastrato nelle maglie di una statura autoriale impareggiabile se dislocata oltre i tempi e gli scenari che ne avevano tracciato le coordinate. Per questa ragione occorre accostarsi alla fatica di Lodovichi con estrema indulgenza per quel che concerne talune imperfezioni, accarezzando piuttosto la speranza d’una perfezione a livello di scrittura a corredo d’un evidente e apprezzabile talento registico. 

Il cinema italiano – si riconosca – ha imboccato da tempo la strada giusta. 

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