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LEO GULLOTTA COMPIE 75 ANNI: “CONSERVIAMO E PROVIAMO AD ALIMENTARE LA SPERANZA”

Tempo di lettura: 6 minuti

L’attore catanese Leo Gullotta compie oggi 75 anni. Una lunga carriera iniziata calcando le scene del Teatro Massimo Bellini della città natale. Poi, appena diciottenne, lo sceneggiato “Mastro Don Gesualdo”, cui seguono l’edizione televisiva del capolavoro di Martoglio “L’aria del continente” e l’esordio cinematografico nel film “Lo voglio maschio” di Ugo Saitta.  Da allora sessanta anni spesi tra cinema e teatro, diretto da grandi registi, in ruoli per l’interpretazione dei quali non sono mancati prestigiosi riconoscimenti. A febbraio scorso, in piena emergenza sanitaria, s’arresta la tournée di Leo Gullotta con lo spettacolo “Bartleby lo scrivano” di Francesco Niccolini, liberamente ispirato al romanzo di Herman Melville, con la regia Emanuele Gamba.

Quando e come è iniziata questa lunga carriera da attore?

La mia carriera è cominciata per caso e per curiosità. Avevo 14 o 15 anni e vivevo nel quartiere Fortino di Catania. Ero l’ultimo di sei figli, ma papà e mamma hanno fatto in modo che tutti noi andassimo a scuola. Nel secondo dopoguerra si badava alla ricostruzione: tutti lavoravano, si rimboccavano le maniche e, malgrado ciò, sorridevano; si era solidali, c’era un senso di comunità largamente diffuso. Se poi, come me, cresci in un quartiere popolare ingoi prima del dovuto la vita: sono lezioni di vita quotidiane. 

A scuola seppi dell’esistenza del Centro Universitario Teatrale e delle lezioni che vi si tenevano per due mesi. Quel mondo mi era totalmente sconosciuto, ma in qualche modo ne ero attratto, ero curioso di conoscerlo. Mi presentai al provino e, in quella circostanza, mi fu chiesto di leggere un passo dell’Adelchi di Alessandro Manzoni.
Curiosità appagata. Un’esperienza, una parentesi chiusa se poche settimane dopo non avessi ricevuto la lettera tramite la quale mi si comunicava di essere stato ammesso come allievo alle lezioni teatrali. All’inizio non ero mai chiamato a salire sul palco: mi vedevano tanto giovane che pensavano fossi solo un uditore. Per il saggio mi fu assegnato il ruolo del fratello minore di una giovane partigiana in Morti senza tomba di Jean-Paul Sartre e nuovamente, dopo il saggio, considerai chiusa la mia esperienza teatrale. 

Inattesa, però, arrivò la telefonata di Mario Giusti, fondatore e primo direttore artistico del Teatro Stabile di Catania. Era il 1963 quando in Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello, con la regia di Giuseppe Di Martino, mi fu affidata la parte di un tenentino della Marina. Fu allora che iniziai a comprendere e a studiare i meccanismi della macchina dello spettacolo. Al tavolo di lettura facevo esattamente ciò che vedevo fare agli altri: apprendevo giorno dopo giorno, accanto peraltro ai più grandi artisti della scena teatrale italiana. Penso alla fantasia di Turi Ferro, ai consigli di Ave Ninchi, alla fascinazione di Salvo Randone, a Michele Abruzzo, Cesare Pavese, Rosina Anselmi. Diventai attore accanto ad artisti importanti e fu come andare all’università. 

In quegli anni conobbi anche Pippo Fava, che con il giornalismo d’inchiesta costruiva la mappa mafiosa della Sicilia, e Leonardo Sciascia, uomo dallo sguardo attentissimo e d’una educazione infinita. Uomini, insomma, che mi hanno gocciolato libertà, dignità, conoscenza. Io intanto assorbivo ogni cosa. 

Un ricordo, un episodio da fermare e regalarci?

Più che altro un aneddoto. In quegli anni ogni battuta che ci assegnavano era un vero e proprio tesoro. Io osservavo molto, imparavo. Mi gustavo anche il modo che avevano gli attori di giocare, sempre nei limiti della professionalità di ciascuno. Durante uno spettacolo, nella tavola di una famiglia povera, era previsto che gli attori letteralmente succhiassero il brodo da una zuppiera, per fame. Io, in quinta, versai nel brodo due scatole di sale e gli attori, poi, dovettero loro malgrado bere quell’intruglio. Fui scoperto e punito: una lezione di vita nell’ambito di questa professione. Avrei dovuto essere rispettoso nei confronti degli attori e, più in generale, delle persone più grandi di me. Per qualche tempo non mi rivolsero la parola.  Furono anni bellissimi. Anni di incontri straordinari.

Dagli anni Sessanta a oggi che cosa è cambiato nel mondo del teatro?

È cambiato tutto. Allora si studiava molto, si tentava di apprendere in ogni modo. I giovani avevano come guide grandi personalità e questo li aiutava a crescere umanamente e professionalmente. Oggi c’è solo un mucchio di burocrazia. Tutti che inventano tutto, gruppi che diventano tribù, una confusione enorme tra professionisti e amatori. E questo accade quando la professionalità diventa rara.  Questo mestiere non si inventa. L’attore è come un chirurgo che deve saper adoperare il bisturi. Guai a pensare di improvvisarsi attori, di divertirsi soltanto. Il teatro non è un passatempo come qualcuno vorrebbe far credere. “A ciascuno il suo”, prendendo in prestito il titolo del romanzo di Sciascia. Un attore deve studiare e amare profondamente il proprio lavoro. 
Oggi si guarda poco alla preparazione di un attore. Oggi contano i follower.

Che cosa significa per un attore dividersi tra il teatro e il cinema?

Il teatro e il cinema hanno linguaggi diversi e bisogna conoscerli a fondo. Un conto è saper usare la voce a teatro affinché risulti chiara al pubblico dell’ultima fila e un altro è recitare sul set.  La mia attenzione è sempre stata rivolta alle storie, ai progetti. Guardavo l’insieme, non la mia parte soltanto, non una eventuale partecipazione straordinaria. Tant’è che molti film nei quali ho lavorato sono diventati dei cult. Uno fra gli altri “Café Express” di Nanni Loy con Nino Manfredi.  Che poi, a proposito di partecipazioni, guai a sottovalutare i cosiddetti caratteristi. Questi hanno fatto la storia del cinema in America. Restando in Italia, pensiamo a Salvo Randone nei film di Elio Petri o in quelli di Francesco Rosi. Caratterista non è un termine denigratorio per un attore, tutt’altro. 

Teatri e cinema ancora chiusi. Sembra non si possano più celare le fragilità di questi due mondi così intimamente legati.

La Pandemia ha solo messo in luce le fragilità, ci ha fatto comprendere che prima era già tutto sbagliato. E questo vale per il mondo dello spettacolo, ma vale pure per la sanità, la scuola, l’università, la ricerca. Quindi adesso bisogna pensare il futuro in un altro modo. Si deve puntare sulla qualità, evitare i tagli. Il teatro e il cinema giovano da sempre alla comunità. La gente ama il teatro e il cinema. Lo streaming è davvero un’altra cosa.  Il problema è che il mondo della politica sconosce la macchina del teatro e quella dello spettacolo in generale. I teatri, per esempio, potrebbero anche riaprire, come le scuole. Il problema è fuori, non dentro gli spazi che rispettano le norme e i protocolli.  Si riducono al 20-30% i posti a teatro? Si provveda allora a compensare i mancati introiti che la diminuzione dei posti comporta. 

Basteranno i ristori a far sopravvivere teatri e sale cinematografiche? Il comparto dello spettacolo, al di là degli interventi immediati per far fronte all’emergenza sanitaria, forse ha bisogno di una ragionata riforma. 

Dove sono i ristori? Gli operatori dello spettacolo non hanno mai avuto riconosciuti i loro diritti. L’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo sta provando a sostenere gli artisti, a difenderne gli interessi, facendosi portavoce delle necessità. Ma i venti milioni di euro destinati dal Ministro Franceschini ai lavoratori dello spettacolo non possono certo bastare. Si tratta di ottantamila lavoratori e di altrettante famiglie fermi da troppo tempo. Io stesso ho tentato di far incontrare sindacati e politici. Senza dialogo non ci si po’ mai intendere.  Nessun risultato, nessun dibattito importante, sebbene il cinema e il teatro siano chiavi importanti della vita. Sembra un film horror.  Francia, Inghilterra, Stati Uniti offrono modelli diversi. Bastano pochi esempi per comprendere che in Italia è tutto sbagliato. Manca la progettualità, manca la prospettiva di un futuro sociale. Negli ultimi trent’anni si sono consolidate solo abitudini disastrose, guardando molto a interessi esclusivamente personali.

Le giornate di Leo Gullotta in questo tempo sospeso?

Sono le giornate di un settantacinquenne che ha il dovere di rispettare le regole. Se esco è solo per fare una passeggiata attorno al palazzo, indossando la mascherina e usando all’occorrenza il gel.  Da febbraio scorso ho scoperto per la prima volta la casa. Leggo molto, penso. E passa attraverso il pensiero la costruzione dell’individuo.  La parola sulla quale dovremmo concentrarci è “insieme”. Perché da soli non si va da nessuna parte. Combattiamo semmai il cinismo diffuso. Guardiamo ai recenti fatti americani per capire che a tutti evidentemente mancano cose importanti: un abbraccio, un sorriso, una carezza sulla mano a chi soffre. Conserviamo e proviamo ad alimentare la speranza, reimpostando intanto il nostro concetto di vita. 

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