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Recensione di Vortex

Tempo di lettura: 4 minuti

Gaspar Noé lo dedica a tutti quelli la cui mente si decomporrà prima del cuore.

“Vortex”, in anteprima al Festival di Cannes e approdato di recente nelle sale italiane, è l’ultimo film del regista argentino al quale ragionevolmente può ascriversi una cinematografia cruda e irriverente che affonda le radici nella svalutazione della realtà e nel dramma esistenziale socialmente condiviso.

La transitorietà del tutto

A essere vivisezionata, stavolta, la vecchiaia d’una coppia che spende il suo ultimo tempo dentro una casa straripante di vita. E di cinema. Come a dire che la finzione, dall’una all’altra sponda, giochi il suo ruolo determinante nel riempimento dei vuoti, fisici e mentali. Come a concepire un universo declinato dalla costruzione esistenziale, frangibile e illusoria, fuori e dentro la pellicola.

Il cinema è del resto afflitto in egual misura dalla nostalgia e da un presente quasi sempre sfuggente, abbozzando il quale si tenta tuttavia di restituire allo spettatore una proiezione, più o meno verosimile, del mondo. Con l’intento – molte volte illusorio – di modellarne l’avvenire.

“Vortex” diventa allora la metafora di tutto ciò che si accovaccia su un tempo esiguo che accorcia, ogni minuto che passa, il futuro. E rende omaggio, lungi dal proposito di individuare scappatoie, alla transitorietà del tutto, alla cagionevolezza, e all’innocenza, dell’individuo che allestisce il suo spettacolo come non esistesse un finale.

Due anime sul limitare dei giorni

Dei due anziani protagonisti l’uno gioca i tempi supplementari sul filo dei sogni e del simbolismo che il cinema sa eccitare e l’altra, cui la demenza ha ridisegnato i contorni di tutto quanto le sta intorno, gode d’una rassegnazione impenetrabile, ancorché involontaria. Entrambi condividono la medesima soglia del vivere: si potrebbero abbellire le loro stanze, ci si potrebbe asservire a una realtà edulcorata che faccia bene all’anima, si potrebbe financo ingannare il destino e, nella finzione, schivare la morte. Ma sarebbe Noé?

Così, sin dai primi fotogrammi che si avvicendano orfani di dissolvenza, a scatti come sa peraltro essere la vita quando è strattonata dall’età, precipitiamo nel trambusto raccolto di due anime sul limitare dei giorni.

“Mon amie la rose” di Françoise Hardy è la magnifica ouverture della quotidianità che ci apprestiamo a spiare dai buchi di ben due serrature, col privilegio della simultaneità dello split screen. I rumori dissimili talvolta si sovrappongono. I protagonisti subiscono la macchina da presa contemporaneamente da protagonisti e comprimari. Il dipanarsi delle due vite, che scorrono sui binari paralleli congegnati dall’unione matrimoniale, calca la mano sulla solitudine di ciascuno.

V’è delicatezza, sì, nell’approssimarsi vicendevole. V’è quell’affetto dentro al quale si spengono gli ardori dell’amore di un tempo. V’è generosità, comprensione, indulgenza. Ma v’è sopra ogni cosa quella solitudine nel vortice della quale si annega semplicemente vivendo.

Dalla radio s’odono le esperte argomentazioni sulla morte, sul lutto e sulla elaborazione. Qualcuno sostiene che tramite le parole si attivino le emozioni. Di contro, nel frangente di vita delimitato registicamente, la sfera emotiva dei due anziani è minata alla base dalla malattia e dai silenzi che ne derivano.

Allora il film punta tutto sull’autenticità dei due protagonisti: Dario Argento e Françoise Lebrun sono all’altezza del compito, sguainano una ammirevole naturalezza, si mettono letteralmente a nudo innanzi allo spettatore, forti della comune identità culturale e generazionale.

Della loro vecchiaia hai come l’impressione di sentirne l’odore. Si insinua negli splendidi dialoghi tra padre e figlio (Alex Lutz), nelle stanze dell’appartamento, persino nel ticchettio della macchina da scrivere cui affidare l’ultimo progetto, l’ultimo sogno.

Cinema e vita

La locandina italiana di “Questa è la mia vita” (Vivre sa vie) di Jean-Luc Godard, tra le pareti di un appartamento colmo di libri e tanto cinema appeso, notifica le origini dell’uomo. Un cenno appena a Fellini, uno a Mizoguchi. La scena di “Vampyr” di Dreyer. L’omaggio, en passant, a Morricone. Ma ovunque si guardi è cinema a entrarti negli occhi. Cinema a temperare i drammi della vecchiaia, cinema a restare. Mentre tutto è destinato a svanire.

Gaspar Noé, autore d’una sceneggiatura di poche pagine, sceglie un critico cinematografico con problemi cardiaci, una psichiatra in pensione presumibilmente affetta da Alzheimer e un figlio ex tossicodipendente perché – è evidente – ama mescolare le carte. Si confondono allora cinema e vita, mente e cuore, droghe e farmaci. Si invertono i ruoli. Spetta al figlio prendersi cura dei genitori anziani. Così è la vita. E il figlio lo fa come può, come sa. Col padre, arrampicato sugli specchi delle ultime illusioni e dei propositi lucidi che puntualmente si infrangono nelle mille liste compilate, che s’aggrappa al passato e non intende mollarlo. E non lo molla. Con la madre che in un istante di lucidità implora gli altri di fingere che tutto sia normale.

La realtà che digrada nel nulla

Quando sopraggiunge la morte si azzerano gradatamente i colori; al volto in primo piano si sostituisce il bianco. La morte possiede del resto il merito di azzerare il caos, di ripristinare la quiete.

L’uomo è raggiunto in un letto d’ospedale, la donna mentre prega. E noi lì, a spiare ogni cosa. Noé non ci risparmia nulla e noi non sappiamo sottrarci all’orrore.

Ma è più orrenda la morte o la casa che un po’ alla volta si spoglia? La morte o il pensiero della morte?

“Dove va, questo attimo?”. Ed Emil Cioran rispondeva: “Alla morte”. Ecco, “Vortex” è un lungo attimo di 142 minuti. È la probabile risposta di Gaspar Noé alla domanda rivolta al filosofo di Răşinari. È il cinema che sopravvive alla realtà ineluttabilmente destinata a digradare nel nulla.

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