L’intervento del critico d’arte Cristiana Perrella (su artribune del 4 gennaio scorso), riguardo la chiusura dei musei, viste le analogie è possibile estenderlo al comparto culturale in toto, ai luoghi di spettacolo in particolare. Anche i musei, per attrarre visitatori, attuano programmazioni dinamiche diversificando l’offerta, online e offline, avvalendosi di cinema, concerti e talk, segnale inequivocabile che lo spettacolo dal vivo è il motore pulsante della cultura italiana, i feedback di stampa e social lo dimostrano continuamente.
La seconda chiusura degli spazi della cultura, da subito indiscriminata in tutta Italia, indipendentemente dal livello di rischio delle singole zone, ha suscitato una debole reazione e pochissima discussione, a parte rare, singole voci dei soliti addetti ai lavori sempre sul pezzo.
La chiusura dei luoghi di spettacolo poteva essere una tra le varie misure plausibili per diminuire la circolazione di persone, cosa senz’altro necessaria per cercare di limitare il diffondersi del virus. Probabilmente non la più urgente né la più efficace, visto che su 350 mila spettatori degli spettacoli estivi è risultato un solo contagio (vedi dati Agis).
TEATRI CHIUSI? SPIEGARNE LE RAGIONI A CHI NON LI FREQUENTA
Il punto è che, se si decide di tenere aperto quasi tutto il resto – a differenza della chiusura di marzo – una spiegazione bisogna darla a chi lavora nel comparto dello spettacolo dal vivo e a chi a questo fa riferimento come a un settore in grado di soddisfare un bisogno primario, che è quello dell’esercizio del pensiero critico, dell’immaginazione e del piacere intelligente dell’esperienza estetica, ancora più necessario in un momento come questo.
Ma soprattutto una spiegazione va data a chi i teatri non li frequenta, o li frequenta poco. Perché non darla vuol dire contribuire ad affermare l’idea che della cultura (o almeno della sua esperienza fisica) si possa fare a meno. Questo periodo, invece, poteva diventare un’occasione per iniziare a cambiare le cose, per rendere i teatri più familiari, almeno nel dibattito generale, affermandone l’importanza come luogo pubblico, accogliente, sicuro e anche sorprendente, in cui riconoscere alle persone un ruolo che non fosse solo quello legato alla produzione e al consumo. Si doveva aprirli di più, i teatri, anziché chiuderli.
LA CULTURA VA SACRIFICATA?
All’asciutto annuncio del ministro Franceschini in tv da Fazio e al Dpcm del 3 novembre, sono seguite poche lamentele, appelli dagli addetti al settore e poco altro. Sono stati chiusi i luoghi dello spettacolo come se fosse ovvio, come se la cultura fosse la prima cosa da sacrificare e il suo sacrificio quello meno carico di conseguenze. Si è parlato molto di più della chiusura degli impianti sciistici, quasi che il settore culturale non generi anch’esso un’economia significativa, che tocca molte persone, non solo chi lavora nel comparto e per il comparto ma tutti coloro coinvolti nel loro indotto, che non sono pochi. Nessuna argomentazione da parte di chi le decisioni le ha prese, nessun dibattito approfondito da parte di chi le ha subite.
COME POSSONO CAMBIARE I LUOGHI DI SPETTACOLO
Qualcuno sostiene che senza l’incremento del turismo una buona parte dei luoghi di spettacolo non ce la fanno a stare aperti, che è meglio aspettare e ripartire quando si potrà farlo alla grande. È una valutazione meramente economica dei pro e contro e un’idea che non condivide gran parte degli operatori culturali perché affrontare la difficoltà del presente, con gli accessi controllati e ridotti (vedi ipotesi patentino vaccinale) avrebbe avuto e avrà un valore grande, quello di affermare una presenza, un ruolo, di dare un segnale positivo di energia e accoglienza che probabilmente le persone non dimenticheranno, oltre al “premio” per chi si è sottoposto a vaccinazione. E poi le economie dei grandi numeri chissà quando torneranno (se ha senso che tornino), meglio sperimentare nel frattempo altre strategie, altri ruoli.
CASO PER CASO
Sono necessari i distinguo, probabilmente, tra luoghi di spettacolo votati ai grandi flussi di visitatori – quelli più in crisi – e altri fuori da quei flussi, si sarebbe potuto procedere in modo più “sartoriale”, lasciando ai direttori (o ai Comuni) la scelta se aprire o meno. Un altro distinguo da fare è quello che riguarda le realtà finanziate in maggior parte da fondi pubblici. Per queste, sostenere la funzione di servizio di interesse generale, dunque aprire, è un dovere fondamentale da assolvere, ora a maggior ragione.
Ancora per qualche mese, si spera, dovrà essere il tempo dell’elasticità e della flessibilità. In questa fase storica del nostro Paese gli operatori culturali hanno dimostrato di essere lucidi, scrupolosi, preparati, appassionati, visionari ma concreti al tempo stesso. La scelta, di qui in avanti, dovrebbe essere lasciata a loro: chi se la sente, sotto ogni punto di vista, faccia liberamente il tentativo di riaprire, chi ritiene invece corretto aspettare ancora qualche settimana, lo faccia con altrettante libertà. Il MiBACT ne prenda atto.