Un accurato processo di scrittura, d’impronta squisitamente teatrale, e una raffinatezza stilistica prodigiosa a tradurre l’ansia di guardare all’essenza nel film “Malcolm & Marie” di Sam Levinson. Una maniera personale, quella del giovane regista statunitense, di soggettivare la realtà attraverso il rapido, incoercibile e destrutturante incedere dei sentimenti reversibili. Elusa l’azione, ci si concentra insomma sugli stati d’animo, sui silenzi impenetrabili, sull’aria satura di vuoti e sulle parole, spietate, a fenderla.
Il frinire confortante dei grilli e due fari in lontananza calamitati da un cottage in aperta campagna. La scelta del bianco e nero, in pellicola 35 millimetri, a suggellare quel minimalismo grazie al quale non ci si distrae per un solo istante dal valzer di dialoghi che inizia allorquando un uomo e una donna varcano la soglia di casa.
Sulle note di Down and out in New York City di James Brown, un campo medio passa in rassegna dall’esterno, quasi a violare l’intimità, tutta la casa. Oltre i vetri, oltre le persiane.

Malcolm (John David Washington) ha scritto, diretto e presentato un film. Durante la première ha tuttavia dimenticato di ringraziare la compagna, Marie (Zendaya). Preludio della guerra l’entusiasmo irritante di lui e la posa snervata di lei, fuori a fumare una sigaretta. Dai maccheroni al formaggio alle disquisizioni sulla critica cinematografica è un attimo. Del crescendo emotivo cui si assisterà di lì a poco reca già i segni il sorriso finto di Marie mentre le mani di Malcolm blandiscono le sue forme.

Ad aprire le macabre danze del conflitto è un’accusa: il mancato “grazie”, cui Malcolm replica, mentre a bocca aperta mastica i suoi maccheroni, tirando in ballo l’incapacità della compagna di alleggerire un problema. Normale cliché delle coppie che litigano, quelle all’interno delle quali lei risulta psicotica, instabile, gelosa, lui manifestamente iperbolico e narcisista.
Fine primo round. Sesso, a rappacificare le anime. Bocche che esplorano corpi. Le parole s’odono, eppure le bocche tacciono. Sono solo parole pensate? Seconda sigaretta, I forgot to be your lover di William Bell.

Secondo atto. Marie vaga tra gli alberi, poi entra e vomita nuove imputazioni. E nella notte delle verità ci si ferisce a vicenda, con cattiveria, senza esclusione di colpi. John David Washington e Zendaya, smessi gli abiti da sera, letteralmente si denudano d’ogni compostezza, d’ogni freno che inibisce i pensieri più inservibili. Gli attori, incalzati spesso dai primi piani e chiamati a esplorare i propri limiti mentali, sono provvisti di straordinario carisma. La recitazione di entrambi è intensa e al contempo lucida, centrando l’obiettivo di una regia che ha inteso contenere un realismo allusivamente poetico entro i margini di una cornice estetica di gran pregio. Certo la vita interiore dei protagonisti, radicata nella contemporaneità eppure disposta a trascendere il tempo, non lascia indifferenti. Da donna è inevitabile parteggiare per Marie. Malcolm, del resto, incorpora tutti i difetti che abitualmente si ascrivono agli uomini: è opportunista, megalomane, egoista. Sostiene di poter spezzare Marie come un rametto, e forse è anche vero. Lei lì, pietrificata, muta. In quella vasca da bagno dove presumibilmente vorrebbe annegare.
Fine secondo round. Sigaretta di Malcolm, Get rid of him di Dionne Warwick. Ciascuno a scegliere la propria colonna sonora dal dispositivo personale. Un duello anch’esso, solo più dolce.
Terzo atto. Avessimo dovuto dargli un titolo avremmo certamente optato per “La recensione”. Malcolm è fuori di sé, lo irritano persino le virgole, sfoggia cultura cinematografica, citando nientemeno che Pontecorvo, e satura l’ambiente del suo io. Marie esibisce quella compassione così cara a molte donne nell’atto di misurarsi con l’ira gratuita e passeggera dell’uomo insicuro.

Finiscono persino col riderne. Effusioni. Primi piani. Altro colpo di scena: la frustrazione. Una tirata infinita di Marie e potenti parole a chiusura di quel cerchio sadico dentro il quale ha segregato Malcolm: “Se annienti con regolarità ogni persona che ti circonda finirai col vivere in una cazzo di realtà fatta di finzione”. Si abbassano nuovamente i toni. Una parvenza di tregua. Goin’ home di Archie Shepp & Horace Parlan.
E nel quarto atto subentra la notte. La camera a spiare entrambi, in due ambienti diversi. E la notte copre ogni cosa, attenua le paure, lenisce finanche il dolore. Liberation degli Outkast è il sound perfetto dell’armonia ritrovata e verosimilmente temporanea.
“Malcolm & Marie” è un’elegante pellicola, a ingemmare la quale concorre la fotografia di Marcell Rév, sull’incomunicabilità. Girato in segreto durante la pandemia, il 5 febbraio è approdato sulla piattaforma Netflix che ne ha acquistato i diritti.
La scelta personale – opinabile riconosco – di ravvisarne una struttura ascrivibile al teatro, scomponibile pertanto in più atti, deriva dall’operazione di scrittura che apparecchia questo dramma e che rievoca pratiche oltremodo familiari alla Nouvelle Vague.
Sam Levinson, mettendo a nudo per una sera il rapporto di coppia, ha indirettamente rimarcato l’esigenza dell’individuo di comunicare. E lo ha fatto in un tempo che ci isola, ci distanzia. Lo ha fatto muovendosi, con grazia e disinvoltura, tra i termini opposti dell’indissolubile dilemma tra la spietatezza della verità e l’opportunità della menzogna.
