Dopo l’esplosione di adrenalina di “Challengers” – che avrebbe dovuto aprire la scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia ma fu posticipato per lo sciopero di attori e sceneggiatori – Luca Guadagnino torna con un film più intimo, lento, introspettivo, ispirato dall’omonimo libro del padre/precursore della Beat generation William S. Burroughs, a metà tra biografia e sogno allucinato.
Sigarette, pistole, insetti, cappelli, macchine da scrivere, l’entrata in scena del protagonista è degna di un divo del cinema Hollywoodiano, in cui i suoi simboli lo precedono sullo schermo fin dai titoli di testa. William Lee (Daniel Craig) è un “queer” che vaga per una fantasmagorica e indefinita Città del Messico, in un eterno ritorno di luoghi e piccole routine quotidiane. I soliti locali, le solite persone, la solita ricerca spasmodica di un contatto umano, di una emozione vera, di qualcosa che possa colmare quel vuoto che lo attanaglia costantemente e che cerca di riempire con alcol e droghe. A rompere questa situazione di stallo è la conoscenza con Eugene Allerton (Drew Starkey), giovane da cui viene immediatamente colpito e con cui intraprende una particolare relazione.
“What else should I be?”
“Queer”, in Italia pubblicato anche con il titolo di “Checca” o “Diverso”, è infatti un termine particolare. Se oggi, in una delle più riuscite battaglie di appropriazione linguistica da parte della comunità LGBTQIA+, ha un carattere celebrativo e riassuntivo nei confronti dei più vari orientamenti sessuali, negli anni in cui scrive Burroughs (1951-1953) è usato principalmente come offesa.
“Strano”, “diverso”, “checca”, William Lee è un uomo terribilmente e tragicamente solo. Nonostante l’amicizia con altri “queer”, i suoi legami sembrano passeggeri, fantasmatici, come nelle dissolvenze delicate e struggenti che Guadagnino usa per mostrare contemporaneamente il suo corpo immobile, fisico, reale, e un corpo traslucido, immaginario, un desiderio, il desiderio di toccare l’altro. Il corpo, il contatto, per Lee è una ricerca sognante e disperata, evidenziata dalla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, alla terza collaborazione con Luca Guadagnino dopo “Bones and All” e “Challengers”. Una melodia calda, effimera, che accompagna Lee nella sua osservazione dell’altro e nel suo cercare un contatto, per poi, come in un sogno, svanire all’improvviso, risvegliato dalla realtà, dell’incomunicabilità dei gesti, degli sguardi, del desiderio.
“Facciamo tutti parte del tutto”
Un’ossessione che porterà Lee ed Eugene in un improbabile viaggio in Sud America alla ricerca dello yage, l’ayahuasca, una droga che secondo un articolo letto da Lee avrebbe doti telepatiche. Una soluzione a questa necessità dell’incontro, della comprensione, della comunione di anime e corpi, una fragilità che lo stesso Lee non riesce a rivelare e a giustificare con quanti gli chiedono le motivazioni dietro a questo viaggio. Lo yage però non è una droga come le altre: è uno specchio, una porta che si apre. E quello che trovi riflesso dall’altro lato potrebbe non piacerti. Un attraversamento di soglia che riprende quello di Orfeo di Jean Cocteau (1950), mostrato nel film, in cui l’entrata nello specchio è appunto una questione tattile, garantita dal tocco della superficie con l’utilizzo di un paio di guanti.
Il corpo, tanto centrale nella prima parte del film, sembra nelle ultime battute sciogliersi in un abbraccio che fonde Lee e Eugene. “Not queer, disembodied“. In una sequenza psichedelica che se tolta dal suo contesto narrativo sarebbe comunque una spettacolare opera di videoarte, si raggiunge il climax della ricerca di Lee, l’apertura di quella porta che forse era più sicuro lasciare chiusa ma ormai è troppo tardi per chiuderla. Un serpente che si morde la coda piangendo, un abbraccio spirituale tra due anime, spettri del passato che invadono la mente di Lee/Burroughs.
Come as you are, as you were, as I want you to be
Oltre alle composizioni originali di Trent Reznor e Atticus Ross, tra cui anche una canzone scritta da Reznor con il testo dell’ultima pagina del libro di Burroughs e cantata dal leggendario musicista brasiliano Caetano Veloso, Guadagnino usa molte canzoni in maniera anacronistica rispetto all’ambientazione messicana anni ‘50, che infatti appare quasi come un non-luogo sospeso nel tempo e nello spazio. Nirvana, New Order, Verdena, in qualche modo dalle parole di questi artisti sembra quasi sentire parlare Burroughs stesso (“I swear that I don’t have a gun” di Come as You Are è particolarmente geniale in questo).
Daniel Craig, protagonista assoluto, magnetic, fragile e dal linguaggio forbito, si immerge nella parte con tutto il suo eccezionale carisma, ribaltando l’immagine da 007, ovvero il divo/modello maschile eterosessuale stereotipico per eccellenza, in un “queer”, un diverso. La sintonia con Drew Starkey rende le scene più intime e sessuali con sensibilità e passione, in un film di sospiri, sudore, carezze e sguardi che si incrociano. “Queer” è un tripudio di sensazioni, un film quasi materiale nella sua continua ricerca del tocco, della pelle che si sfiora, sia nella realtà che nell’immaginazione. Del corpo e della sua scomparsa, della sua disincarnazione, nel sogno di un tutto collettivo, un luogo di comprensione dell’altro universale, in cui finalmente nessuno è davvero da solo.