Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, in un’Europa distrutta e da ricostruire, per molti profughi, in particolare ebrei, l’America era la meta prediletta, il rifugio più sicuro, il luogo del sogno americano. Uno dei tanti nuovi arrivati ad Ellis Island nel 1947 è Laszlo Toth (Adrien Brody), architetto ebreo riconducibile alla corrente del brutalismo, proveniente da Budapest e sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald. Nei suoi 215 minuti di durata il film abbraccia circa 30 anni della vita di Laszlo e della crescita dell’America del dopoguerra, una terra di possibilità e sogni in cui la violenza più brutale è sempre dietro l’angolo.
Mentre aspetta l’arrivo della moglie Erzsebet (Felicity Jones), Laszlo viene inizialmente ospitato dal cugino Attila (Alessandro Nivola), per poi peregrinare tra diversi umili lavori fino a quando un vecchio committente, Harrison Van Buren (Guy Pearce), particolarmente iracondo e ricco, scoperta la sua fama in Europa gli commissiona un lavoro monumentale.
“Nessuno è più schiavo di chi si crede libero”
Nella terra delle opportunità e del sogno americano, Laszlo sembra finalmente ottenere il riconoscimento di artista che in Europa aveva perso, dato che i suoi lavori d’avanguardia non erano abbastanza “germanici”. Preciso e inflessibile nella sua arte, lotta contro ogni piccola modifica o contrattempo, diventando un capo cantiere via via più rabbioso e altezzoso. L’hybris sembra pian piano investire totalmente Laszlo, il cui sforzo creativo sembra paragonabile a quello del film stesso, un’ossessione che si concentra nei più minimi dettagli.
Le illusioni del sogno americano lasciano presto spazio ai suoi incubi: droga, razzismo, odio di classe, lotte di potere. Tutto in “The Brutalist” è una sfida a chi può controllare l’altro, in un continuo gioco mentale, fisico ed erotico di prevaricazione dell’altro. L’apprezzamento di cui Laszlo finalmente gode in realtà non è altro che tolleranza, come gli rivela il subdolo figlio di Harrison, Harry Lee Van Buren (Joe Alwyn). Forte, schietto e deciso nel cantiere, Laszlo si rivela per contrappasso debole nella sua vita privata, abbandonandosi spesso ad alcol e droghe che lo lasceranno indifeso dal sadismo borghese che manifesta il suo potere attraverso la sottomissione dell’altro.
“Questo posto è marcio. Questa intera nazione è marcia.”
Il potere, il solido nucleo del secolo americano, si materializza nell’opera commissionata da Harrison Van Buren, come un’eterna manifestazione del sé che travalicherebbe il tempo. Quattro edifici collegati che svettano in un verticalismo dalle nette linee geometriche, con in alto la ferita di una croce formata dalla luce del sole (dato il contributo della Chiesa nella sua costruzione). L’altezza del potere, la violenza verbale e fisica, si sviluppa anche grazie alle scelte di regia che pongono spesso i personaggi in un continuo scambio tra alto e basso, tra personaggi in piedi e personaggi seduti. Non è un caso che Erzsébet, moglie di Laszlo finita sulla sedia a rotelle per la denutrizione subita durante la guerra, nel momento del confronto decisivo con i Van Buren si presenti in piedi sulle stampelle e che la prima reazione dei ricchi borghesi seduti a tavola sia proprio quella di farla cadere e trascinarla per terra.
Nel corso del film Laszlo cerca di rendere proprio questo lavoro, inserendo dettagli e impuntandosi sulle misure e sui materiali necessari nell’ottica di un disegno preciso. In quella che può sembrare una metafora della produzione cinematografica stessa, la visione artistica e la visione economica si scontrano continuamente, in una lotta a chi possiede di più l’opera. E la metafora tra film e opera si può leggere anche nel finale, dato che questi potrebbero avere una destinazione comune. Tassello dopo tassello, la monumentale opera si costruisce sotto i nostri occhi attraverso jump cut frenetici (una firma del regista anche in “Vox Lux”) e lotte quotidiane, come in un gigantesco set cinematografico. In una metafora tra Laszlo Toth e lo stesso Brady Corbet, il regista conferma di essere stato coinvolto nella produzione del film per più di sette anni, e di essere stato anche lui ossessionato da quest’opera.
Un Kolossal al contrario
Opera monumentale, spettro del passato, metafora del cinema stesso, Corbet mette in scena un film di costruzioni e di crolli continui, di muri che si ergono e sogni che si sgretolano nella spietatezza della realtà. Da kolossal di altri tempi come “Il Gigante” di George Stevens alla spietatezza e precisione di “There Will Be Blood” di Paul Thomas Anderson, conditi con un gusto per il perturbante, il simbolismo, il brutale, alla Lars Von Trier, “The Brutalist” è una modernizzazione del mito del migrante che diventa “self-made man”, la base stessa dell’auto-racconto statunitense, in cui non solo il sogno americano si rivela una promessa non mantenuta, ma in cui ad essere false sono le stesse premesse di partenza.
La vera forza di The Brutalist, e che lo rende uno dei film migliori del concorso di Venezia 81, è la sua impressionante intensità narrativa, sia nel ritmo che nella forza delle immagini, catturando costantemente l’attenzione dello spettatore nonostante la lunga durata. Dalla scelta dei 70mm, il film stesso ha una dimensione effettivamente materiale, in cui tra i colori desaturati emerge un tono quasi grigio che ricorda le architetture il cemento armato alla base delle architetture brutaliste.
Accompagnato dalla colonna sonora dell’artista sperimentale inglese Daniel Blumberg, fatta di tormenti elettronici ed esplosioni di suono alternate a delicate note al pianoforte che rievocano il cinema classico americano, già dal primo indimenticabile piano sequenza si viene catturati dalla spirale di salite e discese di The Brutalist, in un continuo movimento verticale. Lo stesso movimento degli occhi di Laszlo di fronte per la prima volta davanti alla Statua della Libertà, promessa generosa e peso soffocante che ricopre l’intera inquadratura e lo sguardo del protagonista, dal basso verso l’alto.