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Storie di Resilienza

CIAO DIEGO, UNICO E VERO NUMERO DIECI

Tempo di lettura: 6 minuti

Oggi, ci saluta il più grande artista del rettangolo verde. Diego Armando Maradona non è mai stato un santo, non gli è mai interessato esserlo, un vero anticonformista e simbolo di un’America Latina mai doma. Sei andato via ed oggi il mito si trasforma definitivamente in leggenda.

Un personaggio scomodo, in grado di irretire il gotha del Calcio ma non solo. Un leader nato, in campo e fuori. Un personaggio in grado di trascinare le folle e far innamorare milioni di ragazzini e ragazzine.

Paragonabile ad un’opera d’arte sei  sempre stato dalla parte degli ultimi. Nessuno dei tuoi compagni dimenticherà mai quel tuo “por todo el pueblo” negli spogliatoi del Estadio Azteca di Città del Messico. Nessuno degli Inglesi dimenticherà mai il tuo sorriso beffardo quando con la mano più famosa al mondo riuscisti ad ingannare Ali BIn Nasser e Dotchev. Nessuno al mondo dimenticherà mai la voce di Victor Hugo Morales  accompagnare un azione che sfugge alle regole del tempo e dello spazio, una danza infinita tra le gambe dei malcapitati inglesi.

Tu che in campo avevi sempre un sorriso per tutti, tu che in campo sostenevi dal primo all’ultimo i tuoi compagni.  Quante volte molti di noi hanno provato a ricopiare le gesta di quel bambino che palleggiava nella miseria delle favelas, grezzo e sublime come un diamante affiorato dalle rocce.
Nessuno di noi dimenticherà il tuo “Mi farò amare dai bambini di Napoli”.

Hai ribaltato, come solo i grandi artisti sanno fare, il concetto più profondo del calcio. Non era mai successo che uno sport di squadra divenisse uno sport individuale. Con te invece fu così. Ribelle, con una personalità sconosciuta a un fenomeno come Messi, hai vinto da solo un Mondiale e da solo due scudetti che diventarono gli scudetti di Maradona oltre ad una Coppa Uefa in una città come Napoli, unica e poetica come te. Hai messo la faccia su tutto, contro la Fifa, gli Stati Uniti, contro tutti, anche sui tuoi tanti errori non ti sei mai nascosto.

 “Con te se ne parte la primavera”. Ora, tutti quanti, nel mondo che hai sempre combattuto si sprecheranno in lodi ed onori, chissà Blatter e Platini cosa diranno.
Tu che per anni sei stato voce degli invisibili oggi, sei riuscito ancora una volta far parlare tutto il mondo di te. Ciao Diego, unico, inarrivabile numero 10 della storia del calcio.


Concludo questo pezzo riprendendo le parole dal profilo social di Gianni Minà
Con Maradona il mio rapporto è stato sempre molto franco. Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era un personaggio pubblico e io un giornalista. Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose. So che la comunicazione moderna spesso crede di poter disporre di un campione, di un artista soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire sempre di sì alle presunte esigenze giornalistiche e commerciali dell’industria dei media. Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante volte criminalizzato. Una sorte che non è toccata invece, per esempio, a Platini, che come Diego ha detto sempre no a questa arroganza del giornalismo moderno, ma ha avuto l’accortezza di non farlo brutalmente, muro contro muro, bensì annunciando, magari con un sorriso sarcastico, al cronista prepotente o pettegolo “dopo quello che hai scritto oggi, sei squalificato per sei mesi. Torna da me al compimento di questo tempo.” Era sicuro, l’ironico francese, che non solo il suo interlocutore assalito dall’imbarazzo non avrebbe replicato, ma che la Juventus lo avrebbe protetto da qualunque successiva polemica. A Maradona questa tutela a Napoli non è stata concessa, anzi, per tentare di non pagargli gli ultimi due anni di contratto, malgrado le tante vittorie che aveva regalato in pochi anni agli azzurri, nel1991 gli fu preparata una bella trappola nelle operazioni antidoping successive a una partita con il Bari, in modo che fosse costretto ad andarsene dall’ Italia rapidamente. Eppure nessuno, né il presidente Ferlaino, né i suoi compagni (che per questo ancora adesso lo adorano) né i giornalisti, né il pubblico di Napoli, hanno mai avuto motivo di dubitare della lealtà di Diego. Io, in questo breve ricordo, a conferma di questa affermazione, voglio segnalare un semplice episodio riguardante il nostro rapporto di reciproco rispetto. Per i Mondiali del ’90, con l’aiuto del direttore di Rai Uno Carlo Fuscagni, mi ero ritagliato uno spazio la notte, dopo l’ultimo telegiornale, dove proponevo ritratti o testimonianze dell’evento in corso, al di fuori delle solite banalità tecniche o tattiche. Questa piccola trasmissione intitolata “Zona Cesarini”, aveva suscitato però il fastidio dei giovani cronisti d’assalto (diciamo così…) che occupavano, in quella stagione, senza smalto, tutto lo spazio possibile ad ogni ora del giorno e della notte. La circostanza non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua simpatia e collaborazione. Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la nostra nazionale e la passione per lui, Diego,mi promise per telefono: “Comunque vada verrò al tuo microfono a darti il mio commento. E tengo a precisare, solo al tuo microfono. ”La partita andò come tutti sanno. Gol di Schillaci e pareggio di Caniggia per un’uscita un po’ avventata di Zenga. Poi supplementari e calci di rigore con l’ultimo, quello fondamentale, messo a segno proprio da quello che i napoletani chiamavano ormai “Isso”, cioè Lui, il Dio del pallone. L’atmosfera rifletteva un grande disagio. Maradona, per la seconda volta in quattro anni, aveva riportato un’Argentina peggiore di quella del Messico, alla finale di un Mondiale che la Germania, qualche giorno dopo, gli avrebbe sottratto per un rigore regalato dall’arbitro messicano Codesal, genero del vicepresidente della Fifa Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente brasiliano del massimo ente calcistico, che non avrebbe sopportato due vittorie di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione. C’erano tutte le possibilità, quindi, che Maradona disertasse l’appuntamento. E invece non avevo fatto a tempo a scendere negli spogliatoi, che dall’enorme porta che divideva gli stanzoni delle docce dalle salette delle tv, comparve, in tenuta da gioco, sporco di fango e erba, Diego, che chiedeva di me, dribblando perfino i colleghi argentini. C’era, è vero, nel suo sguardo, un’espressione un po’ ironica di sfida e di rivalsa verso un ambiente che in quel Mondiale, non gli aveva perdonato nulla, ma c’era anche il suo culto per la lealtà che, per esempio, lo aveva fatto espellere dal campo solo un paio di volte in quasi vent’anni di calcio. Cominciammo l’intervista, la più ambita al mondo in quel momento, da qualunque network.Era un programma registrato che doveva andare in onda mezz’ora dopo, perché più di trent’anni di Rai non mi avevano fatto “meritare” l’onore della diretta, concessa invece al cicaleggio più inutile. Ma a metà del lavoro eravamo stati interrotti brutalmente non tanto da Galeazzi (al quale per l’incombente tg Diego concesse un paio di battute) ma da alcuni di quei cronisti d’assalto che già giudicavano la Rai cosa propria e che pur avendo una postazione vicina ai pullman delle squadre, volevano accaparrarsi anche quella dove io stavo intervistando Maradona. El Pibe de Oro futranciante: “Sono qui per parlare con Minà. Sono d’accordo con lui da ieri. Se avete bisogno di me prendete contatto con l’ufficio stampa della Nazionale argentina. Se ci sarà tempo vi accorderemo qualche minuto.” Aspettò in piedi, vicino a me, che terminasse l’intervista con un impavido dirigente del calcio italiano, disposto a parlare in quella serata di desolazione, poi si risedette, battemmo un nuovo ciak e terminammo il nostro dialogo interrotto. Quella testimonianza speciale, di circa venti minuti, fu richiesta anche dai colleghi argentini, e andò in onda (riannodate le due parti) dopo il telegiornale della notte. Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date.Lo stesso aveva fatto per i Mondiali americani del ’94 quando aveva accettato per due volte di ritornare all’attività agonistica in nazionale prima per assicurare la partecipazione alla querida Argentina nel match di spareggio contro l’Australia e poi giocando tre partite all’inizio dei Mondiali stessi, prima che lo fermassero. Eppure, val la pena ricordarlo, nel momento in cui, con un’accusa ridicola era stato sospeso per doping dopo le prime due partite. La Federazione del suo amato paese non aveva mandato nemmeno un avvocato a respingere legalmente l’imputazione che non stava in piedi: “Hanno preferito trafiggere con un coltello il cuore di un bambino” aveva commentato Fernando Signorini, il suo allenatore e consigliere, quando la mattina dopo ci eravamo incontrati. L’intervista da un motel dove aveva soggiornato con i parenti l’avevo ottenuta io. I giapponesi l’avevano mandata in diretta e i francesi in differita, un po’ di ore dopo, non credendola possibile. Così, insomma, questo modo di comportarsi da grande e da piccino lo ha portato a superare ogni avversità e pericoli – anche quelli che sembravano impossibili – della sua esistenza. Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato alla militanza politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali ha dato molte volte la propria faccia. Nessun calciatore è mai arrivato a tanto. Diego, per una ironia del destino, se n’è andato da questo mondo lo stesso giorno di un altro gigante, Fidel Castro. Alla fine li rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia indelebile nel gioco del calcio e della vita. E ora silenzio. Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo.

Maradona e Gianni Minà




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