Su Netflix dal 22 aprile, “Estraneo a bordo” (titolo originale “Stowaway”) di Joe Penna è un avvincente shi-fi che congegna il plot sull’esplorazione dello spazio, salvo poi virare su un inammissibile dramma umano: il sacrificio d’una esistenza per sottrarne tre alla morte. Una volta generata la gravità artificiale, ci si addentra pertanto nei meandri dell’etica e letteralmente ci si lascia fagocitare dall’inquietudine.
Non serve lo xenomorfo del capolavoro di Ridley Scott – e sarebbe del resto un infruttuoso plagio – per vivere tragicamente l’eventualità di non fare più ritorno sulla Terra. Finanche l’assenza di suoni nello spazio, cui ci ha assuefatti molta cinematografia di genere, incute nella pellicola di Joe Penna meno terrore dei silenzi tra i quattro protagonisti di questa vicenda disumana. Ché disumano resta, ovunque lo si compia, il sacrificio supremo verso il quale convoglia la prudente sceneggiatura di Penna e Ryan Morrison.
Nessun astuto espediente per incrementare l’angoscia, appena qualche veloce sortita nella vita dei personaggi: il comandante Marina Barnett (Toni Collette di “Little Miss Sunshine”) è all’ultima missione spaziale verso Marte; la giovane dottoressa Zoe Levenson (Anna Kendrick) e il dottor David Kim (Daniel Dae Kim, il celebre Jin di “Lost”), marito e padre, condividono il sogno di coronare le rispettive carriere scientifiche; l’ingegnere di supporto al lancio Michael Adams (Shamier Anderson) è il tutore legale della sorella minore, scampata insieme a lui a quel terribile incendio di cui l’uomo porta ancora i segni. E Michael è esattamente il quarto membro dell’equipaggio, quello non previsto, quello che gocciola sangue dal supporto vitale danneggiato, quello che non sa nemmeno come sia finito lì. E però Michael respira, esattamente come gli altri. Respira in una navicella congegnata per garantire l’ossigeno a tre soli membri.
A quel punto ti immagini una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza: gli ingredienti del thriller ci sono tutti e qualche personaggio, più di altri, dà l’idea di volersi sbarazzare in fretta dell’intruso. Mors tua vita mea, nel senso drammaticamente letterale del termine. Eppure Joe Penna, consapevole – si direbbe – della contemporanea abitudine sociale alla spettacolarizzazione della ferocia, ci restituisce in viaggio verso Marte uno spaccato di pianeta Terra pulito, come non avremmo mai saputo immaginarlo.
La dimensione morale dell’agire umano rideterminata attraverso i gesti e le parole di quattro individui disperati, ciononostante composti, raziocinanti e oltremodo cauti nel fronteggiare risolutamente ancorché spietatamente la sciagura. Lo spettatore, trascinato al loro fianco dalle straordinarie musiche del compositore e pianista tedesco Volker Bertelmann, accarezza la speranza del lieto fine a ogni straziante tentativo dell’equipaggio di recuperare altro ossigeno. L’ingegno umano non si arrende ai calcoli delle macchine. La bombola per il quarto che si perde, con estrema lentezza, nel vuoto dello spazio depenna però una manciata di illusioni. Ché terminano così le illusioni: svaniscono, mentre tu non fai in tempo ad afferrarle. Allora le insegui, con gli occhi. La violenza sa essere inaudita anche dentro uno sguardo.
Le premesse narrative al decollo, quando briosamente ci si punzecchiava sulle università di Harvard e Yale, sembrano appartenere a un passato lontanissimo. Sarà che il tempo, nello spazio, si deforma. La vicenda è umana. Tutto quel che accade lassù riguarda l’uomo al cospetto delle scelte e della tragicità del vivere che ne consegue. La genericità della sventura e la tensione nell’angusto spazio d’un luogo asfissiante, come asfissiante è troppo spesso la realtà, rimanda nientemeno che al teatro. Le scene all’interno della navicella, per materia nel solco della tragedia greca, puntano su quell’intimismo squisitamente teatrale cui di fatto tende la direzione dell’eccellente cast.
Negli occhi di ciascuno si consuma il dramma di uno solo, terribile e senza voce. E nel crogiolo di etnie, di intelletti, di anime, si ricostruisce un’identità condivisa e più che mai autentica. Il sacrificio si condensa allora in una posa giovane, come su un muretto, sul finale. Può essere romantica la morte? L’estraneità, oltre la Terra, si colloca unicamente all’interno dell’esperienza fenomenologica del corpo? E altrove sarebbe possibile ridisegnare l’umanità?