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Musica, Teatro

“La mia generazione ha perso”

Tempo di lettura: 14 minuti

Gli anni passano ma i testi di Giorgio Gaber restano miracolosamente attuali, anche a 83 anni dalla sua nascita, tanto da sembrare scritti in questi giorni.

La quantità e qualità del repertorio di Gaber non è conosciuto ai più per pure ragioni anagrafiche, ma anche per i media che purtroppo sempre più sporadicamente ripropongono le sue opere. NDS vuole ricordarlo, nel giorno del suo 83esimo compleanno, viaggiando nella sua carriera attraverso la Fondazione che porta il suo nome.

Caso unico nel panorama del teatro e della canzone italiani, Gaber ha scritto una grande epopea dell’esistenza umana, scandagliata nelle sue pieghe più recondite e analizzata con lucido disincanto: dall’amore alla morte, dalla nascita alla malattia, dalla paternità alla separazione, dalla partecipazione alla vita collettiva alle riflessioni più intime.

Biografia di Giorgio Gaber a cura di Massimo Bernardini*

Cos’è, cosa dice, scrive e fa un intellettuale, in una stagione confusa come la nostra? È uno che mentre gli altri sembrano fare i conti con le cose più spicciole guarda un po’ più in là e un po’ più dentro.

Le parole di tutti non gli bastano, per lui vogliono dire un’altra cosa. Perciò le deve riscoprire, ripulendole da ovvietà ed equivoci. Perché l’intellettuale vero le parole le usa tutte, le più semplici come le più difficili, e non ne teme nessuna.
E poi l’intellettuale, quello vero, lo distingui perché ama il pensiero ma ancora di più ama la realtà. Ed è lì che diventa scomodo. Le parole, i pensieri, le ideologie, le misura con la realtà. E dunque di volta in volta diventa spiacevole per qualcuno.

Quando un intellettuale non spiace più a nessuno non è che serva a molto.

Giorgio Gaber, come intuì qualche tempo fa lo scrittore e critico Luca Doninelli, è un intellettuale, forse l’ultimo della sua generazione. Quando oggi scrive: “La mia generazione ha perso” non è per finta ma nemmeno per autolesionismo. Grida che qualcosa è finito, qualcosa che era un sogno grande, e di tanti.

Lui, che era nato come cantante di successo, entertainer di classe, lui che andava in tournèe con Mina e aveva un posto da titolare in tivù come a Sanremo, ci aveva creduto. E aveva mollato tutto per il teatro, l’impegno, il sociale.

Parole consumate, oggi. Ma per chi negli anni 60 aveva cantato, e fatto cantare, successi come Non arrossire, La ballata del Cerutti, Porta Romana, Mai mai mai Valentina, E allora dai, Torpedo blu, Il Riccardo, Barbera e Champagne, La balilla, era stata una vera svolta.

Ma c’è di più. Gaber è stato ed è anche oggi, oggi che il suo interlocutore si è ormai frammentato in mille direzioni, un intellettuale collettivo. Altra parola consumata, che ci rimanda l’eco di antiche ideologie. Ma se la applichiamo a Gaber la definizione vuole semplicemente dire che insieme a Sandro Luporini in questi anni ha sentito e cantato per molti, suscitando emozioni e disappunti, esami di coscienza e commozioni, persino “inni” chissà se davvero compresi (“libertà è partecipazione”).

Poi Giorgio Gaber ama il rigore della forma, nella scrittura e in palcoscenico. Usa i mezzi di comunicazione per quello che sono e che valgono. Infatti la sua lingua è netta, semplice, diretta. Non ha complessi d’inferiorità verso la cultura alta, narcisistica, autoreferenziale degli intellettuali all’italiana.

In teatro ha promosso un’audace convivenza di forme, dal monologo alla canzone, dalla pièce di prosa fino ai bis con la chitarra. E volta per volta, a seconda della necessità, la sua parola si è fatta sberleffo, richiamo, dileggio, emozione, disincanto, amarezza.

Si è sentito per anni insieme a un’intera generazione e poi di colpo solo, sempre più solo. Credeva di aver conquistato una certa opinione pubblica ma poi l’ha sentita sempre più distaccata, impermalosita, alla fine persino polemica.

In compenso, in oltre quarant’anni di carriera, ha continuato a scoprire nuovi interlocutori e sempre nuovo pubblico, divenendo intramontabile campione d’incassi a teatro e, a sorpresa, di nuovo gran venditore di dischi alla svolta del secolo. Ma come si costruisce, nel tempo, un intellettuale vero?

Gli inizi

Seconda metà degli anni 50, al Santa Tecla, locale un po’ equivoco a due passi dal Duomo di Milano, un ragioniere studente della Bocconi, diploma di ragioniere, canta e suona la chitarra in buona compagnia. Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Giampiero Reverberi e Paolo Tomelleri fanno jazz, country & western insieme a lui formando i “Rocky Mountains”.

Adriano Celentano recluta Gaber come accompagnatore alla chitarra e Sergio Rapetti (Mogol) gli offre il primo contratto discografico. Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, non ha ancora diciannove anni.

Il mestiere di cantante

In quella serata di fuoco Celentano e Gaber si sfidano a colpi di Ciao ti dirò, ufficialmente firmata da Calabrese-Reverberi ma scritta da Gaber, Tenco e Reverberi. Il modello è copiato dagli Usa, ma il sound e la scrittura sono all’altezza. Gaber incide nel ’58 ” Ciao ti dirò” per la storica Casa Ricordi che ha nel primo numero in catalogo la storica Medea di Maria Callas, e nella sezione leggera Gaber che fa da apripista per Gino Paoli, Umberto Bindi, Ornella Vanoni, Luigi Tenco, Enzo Jannacci, Sergio Endrigo.

A parte qualche scherzosa parentesi in coppia con Jannacci (Una fetta di limone), il Gaber vincente è quello della doppia chiave confidenziale e ironico-realistica. Geneviève, Non arrossire, Le strade di notte, Le nostre serate, Così felice da una parte, La ballata del Cerutti, Benzina e cerini, Trani a gogò, Porta Romana, Il Riccardo dall’altra, rappresentano le due anime di un artista che cresce canzone dopo canzone, nel consenso del pubblico e nell’interesse di altri mass media, televisione in testa.

Gaber diviene uno dei migliori cantanti-cantautori della scena italiana dei primi anni 60, frequenta regolarmente Sanremo, Canzonissima, persino il Festival di Napoli. Vende copiosamente 45 e 33 giri, e dalla Ricordi passa prima alla Rifi e poi alla Vedette.

Ma intanto ha già messo un tassello del futuro: è della stagione ‘60/’61 il primo récital con la sua compagna di allora, Maria Monti: Il Giorgio e la Maria, regia di Giancarlo Cobelli, al Teatro Gerolamo di Milano, salvato dalla demolizione grazie al Piccolo Teatro di Grassi e Strehler (la coppia Gaber-Monti parteciperà anche a Sanremo 1961 con Benzina e cerini).

Ma Gaber deve ancora percorrere tutta la parabola del magico decennio, presentarsi a Sanremo ’66 in coppia con Pat Boone con Mai mai mai Valentina, esplodere nell’hit parade del ’67 con la sanremese E allora dai, scrivere le spiritose Goganga, Snoopy contro il barone rosso, Torpedo blu, Sai com’è no com’è, Il Riccardo, Barbera e champagne.

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Se i concerti in teatro gli fanno scoprire un punto di arrivo senza ritorno, sul fronte discografico la faccenda è più complicata. Al successo del disco L’asse di equilibrio del 1968 e delle tournée teatrali del ’69 e ’70 con Mina, fa da contraltare il calo d’interesse di percorsi codificati da decenni come Canzonissima, Sanremo e Disco per l’estate.

Gaber non sta né di qua né di là, troppo rigoroso e troppo musicista per disfarsi del suo mestiere e troppo cosciente dei mutamenti in atto per tornare indietro. In fondo Sexus et politica, canzoni di A. Virgilio Savona scritte su testi di autori latini di 2000 anni fa, del 1970, è l’ultima scommessa di Gaber ancora all’interno della logica discografica, seppure alternativa. Di lì in avanti scrittura, registrazione ed interpretazione delle sue canzoni saranno a servizio di una nuova identità artistica.

In teatro

1970. Paolo Grassi probabilmente scopre il nuovo Gaber al Lirico di Milano, in una serata divisa a metà con Mina. Comincia a corteggiarlo per un’ipotesi di récital prodotto dal Piccolo Teatro. Ma Gaber ha un carnet fitto di impegni con Mina e il sabato sul primo canale in prima serata televisiva.

Ormai convinto da Grassi, a fine estate Gaber lavora al suo primo récital da titolare, debutto previsto il 18 ottobre 1970 al Teatro S.Rocco di Seregno, in Brianza. Eccolo, il decentramento del Piccolo: ottobre, novembre e dicembre in provincia e finalmente, dal 12 gennaio del 1971, tredici giorni filati nella storica sala milanese di via Rovello.

Questa la locandina, mentre il programma di sala parla della “…classica storia dell’uomo inserito…la storia di tutti noi, dell’autore stesso… Il signor G è l’uomo che fa fatica a vivere e a cui crollano uno dopo l’altro i miti della giovinezza”.

Un quartetto musicale alle spalle, in cui già figura al pianoforte e alla direzione musicale il fedelissimo Giorgio Casellato, e un asciutto programma fatto di brevi monologhi e canzoni. La scrittura è compatta, rigorosa, senza sbavature; il modello del rècital francese alla Brel-Montand-Bécaud molto tenuto presente. Ma la fisicità di Gaber, il suo trascolorare continuo fra ironia e lucidità, fra drammaticità e leggerezza, fa già la differenza. Lungo l’esile trama di un signor qualunque fotografato dalla nascita alla morte, Gaber si porta dietro tutto il mestiere maturato fin lì e insieme si lascia definitivamente alle spalle quella “simpatia” ammiccante che tanto aveva fatto la sua fortuna, anche commerciale. C’è la tentazione, figlia dei tempi, di uno sguardo un po’ manicheo su quell’Italia mezza in rivolta e mezza in ritirata, ma l’orizzonte piccolo borghese è vivisezionato con spietatezza e complicità, puntando il dito innanzitutto verso se stessi.

Gaber vuole comunicare con tutti e intende ripagare la gente che lo ha scelto con una serata di emozioni coinvolgenti, contagianti, divertenti, a volte fatte di autentica poesia.

Anche se è fresco di successi in tv, il “nuovo” Gaber il pubblico teatrale se lo conquista sera dopo sera, grazie al passa parola fra la gente e all’apertura di credito che la critica, pure se ancora indecisa se catalogarlo fra i canzonettari o i teatranti, gli concede fin dall’inizio.

Ci vogliono due caparbie stagioni di teatri semivuoti (1970/1971 con Il signor G e 1971/1972 con Storie vecchie e nuove del signor G) per prendere il volo. La novità è che Gaber ha trovato la sua casa e la sua dimensione definitiva: è nato il teatro-canzone. Nella scrittura lo aiutano, all’inizio, Umberto Simonetta e Giuseppe Tarozzi, Herbert Pagani e, nell’ombra, un pittore viareggino incontrato a Milano, Sandro Luporini.

Anni ’70

Nel decennio dei cambiamenti e dei rivolgimenti, la parola chiave del duo Gaber-Luporini è impegno, tanto che il nuovo spettacolo della stagione 1972/1973 si chiama Dialogo fra un impegnato e un non so. Nei dialoghi Gaber fa la parte del non so, sottoponendo le certezze del militante, l’impegnato, a una severissima disanima, fino alla vera e propria provocazione de Al bar Casablanca. E’ il nodo esistenziale, personale quello che gli sta a cuore. Da lì, dalla spietata analisi delle contraddizioni, nasce un evergreen come Lo shampoo ma anche quella che diverrà quasi la “sigla” di Gaber nel decennio: La libertà, di cui quasi tutti ricordano il ritornello (“la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”) e pochi la ridda di interrogativi che lo precede, su quello che la libertà “non” è.

In tutta Italia, a ritmo crescente, i teatri vanno al tutto esaurito. In tanti corrono almeno una volta all’anno da Gaber per sentire “cosa ha di nuovo da dirci”, per due ore di godibilissima autocoscienza, per discutere con lui in camerino e poi continuare per strada, in macchina, in tram.

Niente radio o tv: la canzone “funziona”, se funziona, al primo ascolto in teatro, e si badi che non si tratta più di ritornelli spensierati o sentimentali: è materia calda, sferzante anche nell’ironia, spesso frutto di letture importanti.

Eppure la cosa cresce, va avanti, ed ecco nella stagione ‘73/’74 Far finta di essere sani, dove nemmeno l’orchestra serve più. Gaber è tutto solo di fronte alla “sua” gente, i dischi fanno ormai solo da base per il suo canto o da promemoria a fine spettacolo. E accanto al teatro ci sono gli altri luoghi: le scuole, le fabbriche, i tendoni, persino i teatri parrocchiali; ovunque si possa comunicare.

Il Piccolo Teatro è ormai solo un biglietto da visita, un patrocinio in locandina.

Gaber è diventato “ditta”, come si dice a teatro: una pattuglia di fedelissimi lo segue ogni sera e un’altra sta dietro alle richieste che piovono da tutta Italia.

La televisione è ormai dietro le spalle, la discografia un gioco d’altri tempi (il contratto con la Carosello servirà sostanzialmente a produrre dischi “di servizio”, venduti soprattutto in teatro). E sarà così per sei esplosive stagioni fino al ‘78/’79, in un autentico crescendo.

Far finta di essere sani è una sorta di viaggio profondo nell’io diviso, contraddittorio, insincero. Ne parlano la canzone che dà il titolo allo spettacolo ma anche Cerco un gesto naturale e la godibilissima Quello che perde i pezzi. Le nuove scoperte, la politica, l’amore “liberato”, la cultura “alternativa”, non risolvono. Il bilancio è già tragicomico (La nave) ma la speranza del cambiamento è una strada ancora aperta. A certe condizioni, però. Quelle cantate in Un’idea (“se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”) e in Chiedo scusa se parlo di Maria, dove la bruciante incertezza dell’epoca fra “personale” e “politico” ha questa risposta: “Se sapessi parlare di Maria, se sapessi davvero capire la sua esistenza, avrei capito esattamente la realtà…Maria la libertà, Maria la rivoluzione, Maria il Vietnam, la Cambogia, Maria la realtà”.

Il rapporto fra l’io e la realtà resta la grande questione sul tappeto, troppo semplificata, sembrano dire Gaber e Luporini, dal facile sloganismo di quegli anni. Così in Anche per oggi non si vola, stagione ‘74/’75, i temi affrontati crescono per complessità e ambizione. La contraddizione, la spaccatura, sono affrontate guardando alla parola (La ragnatela, La bugia) ma soprattutto al corpo, alla sua ingombrante fisicità, alla sua identità sessuale in crisi (Il corpo stupido), al suo rapportarsi con gli altri privo di verità (Le mani).

La stagione ‘78/’79 ha alle spalle l’Italia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, un’intera fetta della “razza” persa dietro al mito del terrorismo, il consociativismo in parlamento e le divisioni che crescono nel Paese. Gaber e Luporini tornano in teatro con coraggio e disposti al confronto duro, provocatorio, doloroso. Se in Timide variazioni e Chissà se nel socialismo continuano ad analizzare le illusioni dell’io, L’esperienza è già un bilancio in rosso di tutto un decennio, che sfocia nel gusto imprevisto per le suggestioni animalesche della violenza (La pistola).

Ma si apre un nuovo, provocatorio capitolo: il confronto serrato col passato, con la tradizione. Ne I padri miei e I padri tuoi la “razza” è già messa in discussione con lucida spietatezza: forse erano meglio i padri, i padri reazionari, borghesi, autoritari ma ancora integri, interi. “Sono proprio deficenti gli uomini, ormai sono proprio devastati”, recita La festa, ma non è che un assaggio per il triplice colpo di Polli d’allevamento, Guardatemi bene e Quando è moda è moda.

La prima è l’invettiva dell’amore deluso e tradito, ormai Gaber ha i toni pedagogici delle Lezioni luterane di Pasolini, contrappone l’io al voi: “Questa vostra vita sbatacchiata che sembra una coda di lucertola tagliata. Per riflesso involontario vi agitate, continuate ad urlare, finché non vi scoppia il cuore, il cuore, il cuore…”.

La seconda ha il dolore aspro di un padre che vede negli ultimi figli, quelli del movimento del ’77, dei “mostri” di cui si sente in qualche modo responsabile: “Guardatemi bene, non credo più a niente, non voglio più lavorare, come un deficiente…sono un vostro figlio, una vostra creazione, un vostro prodotto: avete visto come sono ridotto!”.

La terza è il commiato definitivo, il divorzio da una generazione, da una “razza” che ha sperperato e reso consumo ogni sogno di diversità.

I toni sono senza precedenti, il sarcasmo stride come carta vetrata, come se fosse l’ultimo appello contro il disfacimento di un sogno: “Io per me, se c’avessi la forza e l’arroganza, direi che sono diverso e quasi certamente solo, direi che non riesco a sopportare le vecchie assurde istituzioni e le vostre manie creative, le vostre innovazioni…”. Fino alla chiusa a muso duro che anticipa la reazione del pubblico: “Di quelli che mi diranno che sono un qualunquista non me ne frega niente, non sono più compagno, né femministaiolo militante…sono diverso perché quando è merda è merda, non ha importanza la specificazione”.

Come reagisce il pubblico? In teatro è il finimondo, arrivano fischi e “booh” di dissenso, l’impatto è durissimo. Su Gaber e Luporini fioccano le accuse di pessimismo, disfattismo, qualunquismo: qualcuno si sente apertamente tradito. La stagione è un vero calvario di scontri e discussioni ogni sera, Gaber e Luporini avranno bisogno di una lunga pausa di ripensamento. E nel furore delle discussioni pochi si accorgono delle profonde innovazioni musicali dell’ultimo Gaber, che ha scelto per le sue basi musicali un nuovo talento della scena musicale italiana: Franco Battiato.

Solo

Negli anni della “Milano da bere” Gaber ricomincia da un disco del 1980, Pressione bassa, che esplora diverse direzioni. C’è l’ennesimo bilancio bruciante del sogno appena trascorso (Non è più il momento), la pura e semplice contemplazione della positività della vita (L’illogica allegria), la prima avvisaglia di quello che sarà un lungo viaggio nell’universo femminile (Una donna) e uno dei capolavori assoluti e definitivi del teatro-canzone di Gaber e Luporini: Il dilemma, canzone coniugale che dopo vent’anni non ha ancora esaurito la sua forza e la sua poesia: troppo avanti per quegli anni, ancora da scoprire per quelli che verranno.

Io se fossi Dio, scritta nell’estate dell’80, risulterà talmente estranea all’atmosfera dominante da dover ricorrere a un discografico di “disco dance”, per uscire su vinile.

Il lavoro dell’attore

La prima svolta è forse sperimentale, arrischiata: l’incontro, che non avrà seguito, con una grande attrice come Mariangela Melato, per la breve stagione ‘82/’83 de Il caso di Alessandro e di Maria. Il testo di Gaber e Luporini è un primo viaggio in prosa dentro l’universo maschile e femminile, ma l’esito finale, nonostante il successo di pubblico e la prova del Gaber coprotagonista, non soddisfa del tutto i due autori. Tant’è che dopo una stagione di pausa è il “Teatro canzone” a tornare a farla da padrone, con l’orchestra che dopo un decennio ritorna in palcoscenico.

Le due stagioni ‘84/’85 e ‘85/86 di Io se fossi Gaber, e il disco che le accompagna, Gaber, aggiornano il sound dell’artista, anche in teatro. Si aggiunge al repertorio una struggente canzone dai toni metafisici (Io e le cose) e un’implacabile analisi cantata del presente come Il sociale, dove già Gaber e Luporini intuiscono molte delle malattie che verranno, dal solidarismo indiscriminato al conformismo della cultura.

Una vecchia canzone degli anni Trenta, Parlami d’amore Mariù, fa da titolo al primo capitolo di quello che Gaber e Luporini definiranno il loro “Teatro d’evocazione”. “Per concezione, o semplicemente per comodità (un solo attore in scena) – spiegano -, il nostro è un teatro scarno che privilegia appunto l’attore e la parola. I temi si differenziano un po’ da quelli del teatro-canzone, dove vengono affrontati spesso problemi più specificatamente sociali. Scompare infatti completamente tutto ciò che appartiene al mondo della politica (dalla satira all’invettiva) per dar posto a un’analisi sulla nostra esistenza”. L’obbiettivo è quello di suscitare una sorta di “pulizia del sentire, perché proprio da lì si può trovare il coraggio di ridare un’occhiata al mondo”.

Al termine degli anni 80 si scorge l’affermarsi di un punto di vista che Gaber e Luporini confermeranno anche negli anni a venire, una sorta di “pietas” che è un po’ il segno della raggiunta maturità:

Avete mai visto le spalle di un uomo che cammina davanti voi? Io le ho viste. Sono le spalle comuni di un uomo qualsiasi. Ma si prova una sensazione simile alla tenerezza. C’è tutta la normalità umana. La fatica quotidiana del capofamiglia che va al lavoro. I piaceri di cui è fatta la sua precaria esistenza. Sì, certo… tutto dentro la naturalezza di quelle spalle vestite. Quello che io ora provo per quell’uomo è una comprensione diretta, senza impegno, senza ideologie sociali. Attraverso quest’uomo li posso vedere tutti. Nessuno sa quello che fa, nessuno sa quello che vuole, nessuno sa quello che sa. Intelligenti, stupidi… che differenza c’è? Vecchi giovani… certo, tutti della stessa età. Uomini donne… Che vuoi che conti?… Tentativi di persone che forse… esistono. Sì, quell’uomo è tutto. Bisognerebbe essere capaci di trovare… l’indulgenza e l’amore che dovrebbe avere un Dio che guarda”.

Parlami d’amore Mariù, Il grigio, e la fugace ma intensa apparizione de Il Dio bambino, storia di un parto imprevisto che travolge con la sua carnalità tutto l’impaccio e il narcisismo della condizione maschile, valgono a Gaber il definitivo riconoscimento del mondo teatrale.

L’autentico tour de force fisico che rappresentano queste tre prove attorali, la tensione drammaturgica della scrittura, l’originalità dei temi affrontati, saranno affiancati dall’anomala avventura di una messa in scena di Aspettando Godot di Beckett (accanto a Gaber il suo vecchio sodale Enzo Jannacci), dal lavoro di autore per gli spettacoli di Ombretta Colli e quello di curatore per molti giovani attori, da Paolo Rossi ad Arturo Brachetti e Giampiero Alloisio. Un’intensità di impegni teatrali che culminerà con la direzione artistica, nel 1989, del Teatro Goldoni di Venezia. Ma già nella stagione ‘91/’92 il vecchio teatro-canzone reclama il suo spazio.

I nuovi equilibri

Con monologhi e canzoni, Gaber e Luporini faranno convivere novità e repertorio, scegliendo dal passato soprattutto quello che oggi suona quasi profetico. In più c’è la forza accresciuta del Gaber attore, il gusto di avere un gruppo musicale ormai fisso, persino il godibilissimo capitolo dei bis – un ripasso all’impronta, voce e chitarra, delle canzoni più popolari del Gaber anni 60 e 70 – che soddisfa le emozioni più semplici del pubblico (un vecchio ritornello in coro, lo sguardo fra l’ilare e il commosso per chi ti siede accanto).

Ma “c’è roba”, come direbbe Gaber, materiale nuovo che nasce dall’immutata voglia di dire la propria sullo stato del mondo. Un parere personale, certo, senza alcuna pretesa di identificazione collettiva. Eppure quel pubblico che entra in teatro in ordine sparso se ne va via spesso all’unisono, di nuovo unito per imprevedibili vie.

Ogni stagione ha i suoi colpi di genio. La stagione ‘91/’92 è quella dell’impetuoso monologo Qualcuno era comunista, generosa prova attorale e insieme bilancio dolceamaro di un sogno a cui tanti avevano creduto. Sono commozioni ed applausi ogni sera, timide riprese di una voglia di discutere che dentro la gente comincia a rinascere.

Il paesaggio intorno è quello dell’Italia ferita da Tangentopoli, e gli anni seguiti alla caduta del muro di Berlino non si riveleranno che l’inizio di un tragico domino che abbatterà partiti, istituzioni, carriere e vite personali.

Nella Canzone della non appartenenza, il bersaglio è il rischio di insincerità di tanto solidarismo corrente. Non è da meno la forza provocatoria di E pensare che c’era il pensiero, lo sguardo intenso sui sentimenti di Quando sarò capace d’amare e Un uomo e una donna, il sarcasmo pungente e travolgente della godibilissima Destra-Sinistra, allegro manifesto di un Gaber che davvero si pone al di là di ogni possibile manicheismo.

Dopo anni di successi si fa strada il bisogno di fare il bilancio di quello che si è vissuto (Che bella gente) e anche un po’ di ironia su certi rimbambimenti familiari (La stanza del bambino). Il calendario del teatro-canzone, in attesa di nuove partenze, si chiude con la stagione ‘99/’2000.

Il nuovo millennio di Gaber e Luporini ci riporta a un’antica questione. Finita ogni illusione, evaporato il mito di ogni possibile alternativa, ecco i nostri autori riproporci una realtà che resta dura e implacabile, invasiva e insinuante: Il mercato. Le sfide, dice Gaber nella canzone, sono quelle di sempre, anche se il paesaggio è cambiato e le generazioni ormai diverse.

*Tra l’11 febbraio 1971 e il 5 febbraio 1995 Giorgio Gaber ha realizzato al teatro Lirico di Milano centinaia di repliche dei suoi spettacoli. Numeri straordinari, accompagnati da clamorosi successi. La Fondazione Gaber dopo 21 anni di chiusura, il 22 dicembre 2021 ha riaperto il sipario del Teatro Lirico ora “Teatro Lirico Giorgio Gaber”, nella storica sede milanese di Via Larga. Sintesi della biografia di Massimo Bernardini tratta dal sito della Fondazione.

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