Passare a setaccio la violenza perpetrata da un universo maschile e maschilista che, in piena crescita, frantuma i già friabili modelli educativi della peggiore società risponde senz’altro alla chiamata del cinema come prezioso strumento di indagine sociologica. E, quando subentra il rigore del metodo scientifico, persino come documento e testimonianza.
Ci si domanda allora perché inseguire, talora persino afferrare, le aberrazioni delle interiorità antropologiche attraverso un frammento di storia e poi rinunciare al riflesso fedele della realtà che chiama in causa un preciso fatto di cronaca.
“La scuola cattolica”, nell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Edoardo Albinati, condensa in 106 minuti una pagina assai triste della storia italiana: il delitto del Circeo avvenuto tra il 29 e il 30 settembre del 1975 nel contesto di quella Roma privilegiata entro cui germinavano frustrazione, odio, brutalità.
Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido sono insomma i giovani mostri cui si ascrivono le violenze perpetrate, in una notte interminabile, ai danni di due ragazze di borgata che assurgono a emblema di quel genere femminile oggettificato nella comune visione disumanizzante di taluni contesti.
Donatella Colasanti è sopravvissuta al massacro, Rosaria Lopez non ce l’ha fatta.
Ma dietro l’orrore attorno cui ruota il film diretto da Stefano Mordini, presentato fuori concorso a Venezia 78 e uscito nelle sale il 7 ottobre, ci sarebbe la storia. Lì, sul terreno complesso della ricerca e della ricostruzione più onesta, si gioca la partita tra realtà e finzione. Ed è lì che la violenza rapidamente perde le vaghe fisionomie d’una connotazione ancestrale e assume quella forma nitida alla quale dovrebbe aspirare la cronaca.
Si comprende non fosse facile per Stefano Mordini, Massimo Gaudioso e Luca Infascelli trasporre l’intricata materia contenuta nel romanzo di Albinati. Per questa ragione si condivide la scelta di scompaginare la fabula, lungo l’asse temporale, a vantaggio del ritmo narrativo. Si disapprova invece l’omissione del contesto politico a cui è strettamente avvinghiato l’agire individuale e sociale.
Erano quelli gli anni d’una ricercata anarchia, eco del Sessantotto, e di un’Italia che cambiava a suon di libertà, lotta armata e sangue. Lo stile e, più in generale, i modi di espressione erano ambigui e palesavano adesioni a due universi inconciliabili. Le giacche di pelle, gli occhiali Ray Ban e le polo Lacoste erano prerogativa dei giovani di destra: i sanbabilini di Milano e i pariolini di Roma per intenderci. L’Eskimo che di lì a poco avrebbe cantato Guccini, i maglioni di lana oversize, i jeans e le scarpe modello Clarks comprate al mercatino dell’usato nel ’75 collocavano politicamente a sinistra.
Trattare sbrigativamente in termini cinematografici questo contesto significa trasfigurare il massacro del Circeo e ridurre la cronaca a mero pretesto per l’effigie del male. Significa ignorare le scaturigini d’un orrore che non era solo il frutto dei precetti educativi cattolici negli angusti ambienti familiari e scolastici. Significa escludere le ideologie che legiferavano allora sulla realtà e alle quali si asservivano, nell’illusione cieca di sopravvivenza, le debolezze e i malanimi di tutta una gioventù.
Stefano Mordini, inappuntabile sul versante stilistico, ha incautamente optato per un racconto corale così traboccante di uomini e cose da risultare effimero. Ci sfilano innanzi famiglie sottosopra, genitori distratti e figli spietati di cui non facciamo alcuna fatica a comprenderne il disagio. Ma quando tentiamo di afferrare il dramma, quello inaspettatamente si dissolve. È appunto un’elegante carrellata sui volti dei quartieri alti di Roma, cui peraltro la grana della pellicola non tributa la distanza temporale, a dover dilazionare il delitto nella villa sul litorale pontino.
Laddove peraltro si provi ad affondare lo sguardo persino si deraglia. All’insegnante di lettere cui si consegna un tema che omaggia Hitler si nega semplicemente l’affondo, ma al professore di storia dell’arte, nel tentativo di addentrarsi nei sentieri della morale, si dà modo addirittura di disquisire sul bene e sul male così tanto approssimativamente da fornire un meraviglioso assist a chiunque volesse, in maniera altrettanto superficiale, ravvisarvi l’assoluzione tout court dal peccato.
“La scuola cattolica” potrebbe essere dunque l’episodio pilota di una serie composta da un numero impressionante di stagioni e, visti i presupposti, si rimarrebbe volentieri incollati allo schermo per guardarle tutte. Nella veste di film, però, funziona poco.
Benché si sia avvalso d’un cast egregio costituito da volti noti del cinema italiano (Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Valentina Cervi, Fabrizio Gifuni, Jasmine Trinca) e da giovani attori ben diretti (pregevoli, tra le altre, le prove di Benedetta Porcaroli e Luca Vergoni), Stefano Mordini delude le aspettative.
Alle lunghe e scioccanti sequenze del massacro non si giunge seguendo il filo conduttore della storia politica e sociale di quel tempo e non bastano le deboli incursioni documentaristiche ai Parioli o le note di Battisti per rimontare sullo sguardo appena epidermico della macchina da presa.
Faccio fatica, invero, a comprendere la scelta della commissione censura di vietare il film ai minori di 18 anni, ma ammetto altresì che senza l’opportuno approfondimento del dramma sarebbero arrivati ai giovani gli esiti della ferocia fuori da qualsivoglia contesto cui non è possibile ascrivere il delitto del Circeo.
Il riferimento didascalico al processo di Izzo, Ghira e Guido, quando ancora lo stupro era considerato un reato contro la moralità pubblica, assegna alla questione un orizzonte storico ben preciso e vincolante ai fini della ricostruzione cinematografica. Da lì occorreva concretamente partire, valicando finanche i confini del genere drammatico per inoltrarsi, coi mezzi stupefacenti della settima arte, nelle composite strutture narrative del documentario.
Occasione sprecata. Peccato.