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GIUSI ARIMATEA CI PARLA DE: “L’ARMINUTA”. UN FILM DI GIUSEPPE BONITO

Tempo di lettura: 4 minuti

Tratto dall’omonimo romanzo (vincitore del Premio Campiello 2017) di Donatella Di Pietrantonio, “L’arminuta” è il terzo lungometraggio di Giuseppe Bonito. Distribuito da Lucky Red e uscito nelle sale cinematografiche il 21 ottobre, il film affronta con estrema delicatezza il tema dello spaesamento e scandaglia, con altrettanto garbo e inusitata onestà, i fondali dell’animo d’una giovane “ritornata”, arminuta in dialetto abruzzese, cui abbondano le risorse per adattarsi al mondo che le tocca e del quale prende gradualmente le misure. Occhi a decifrare la realtà e adulta oculatezza nella rilettura di quel passato ingemmato dai ricordi che impatta con l’umana limitatezza del presente. 

All’apparenza non v’è partita tra i luoghi leggiadri dell’infanzia e quelli miserandi nei quali si ritrova suo malgrado l’arminuta (Sofia Fiore); persino i colori della pellicola sanno tratteggiarne le sembianze. La famiglia agiata che l’aveva strappata alla povertà, dipingendo per lei un tempo vivace e sgargiante, ora l’abbandona ai toni lugubri della sua vera casa: estranea come, dentro i ranghi della fantascienza, un altro pianeta. 

Il film, per il quale Monica Zapelli e Donatella Di Pietrantonio hanno lavorato alla sceneggiatura, s’apre su un affresco bucolico cui ben si confanno oche cenerine. Litigano piuttosto con lo scorcio la Cinquecento e la motocicletta rossa che assegnano un tempo, gli anni Settanta, a una storia destinata tuttavia a valicare gli angusti limiti temporali per assurgere a eterna metafora di adeguamento cosciente e – si badi – per nulla rassegnato al reale. 

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Quando scende dall’Alfetta, coi suoi lunghi capelli rossi, l’arminuta è una pennellata di turchese su un Giuseppe Pellizza da Volpedo. Una pennellata che comunque non dissimula quell’angoscia muta impressa sul volto della tredicenne smarrita. Ad attenderla, di lì a poco, un universo primordiale di cui tanto le crepe sui muri quanto i gesti e le parole dei nuovi familiari sanno essere il perfetto correlativo oggettivo. 

Il panorama che si staglia innanzi agli occhi dell’arminuta si rimpicciolisce a tal punto che il passato diviene l’unica via di fuga possibile. Così la giostra capitata quasi per caso, e abilmente scortata dalla macchina da presa, costituisce una mera parentesi d’aria nell’asfissiante scatola dentro cui il destino ha infilato a forza la giovane senza nome. 

E dentro quella scatola tocca apprendere in fretta gli istinti ferini di individui che ignorano le buone maniere, frequentano quotidianamente la fatica e sembra non sprechino le parole, anteponendo piuttosto l’agire. Il sistema è patriarcale: alle donne spettano le faccende domestiche e l’accudimento della prole, agli uomini tocca lavorare. A tavola si serve per primo il capofamiglia, poi gli altri. E lì non si fiata: lo sguardo deferente rivolto al proprio piatto, qualche sorso di vino. Lo sfinimento, mentre s’appaga la fame, sa di fatto privarti d’un sorriso. 

Fabrizio Ferracane veste magistralmente i panni del padre severo, taciturno, dal temperamento irascibile. Vanessa Scalera, moglie ancor prima che madre, rende appieno la complessità del personaggio. 

Entrambi sanno confrontarsi con una vita fatta di stenti, col sacrificio, con le scelte più difficili, ma letteralmente capitolano, e deflagrano, al cospetto del dolore più grande: la morte d’un figlio. 

Vincenzo (Andrea Fuorto), il maggiore dei fratelli, non si era ancora arreso alla dura esistenza ereditata, era attratto dal guadagno facile, guardava all’arminuta con occhi maliziosi e aveva una vita intera davanti a sé. A spezzarla l’ultima corsa in moto, tra i paesaggi brulli d’una terra dimentica del mare e rischiarata solamente dal cielo. Sa essere maledettamente feroce il destino. E chi resta muore ancora un po’, poi ricomincia a sopravvivere.

L’arminuta, sospesa tra due vite, è costretta a ripartire. Vittima delle metamorfosi d’un mondo adulto che non si cura del suo disagio, prova a guardare avanti. Costruisce il proprio futuro, partendo dai banchi di scuola. Fa pace col passato, assegnando i giusti colori al mondo che l’ha sputata via. E alla donna che l’ha cresciuta (Elena Lietti). 

Accanto a lei la sorella minore, una formidabile Carlotta De Leonardis. Entrambe impartiscono lezioni ai “grandi”. Il patrimonio culturale, economico, relazionale delle due bambine è dissimile. Le due famiglie, strutture essenziali per la formazione dell’individuo, sono dissimili. Eppure, nella diversità delle forme, i cuori sanno risolutamente sovrapporsi. L’effetto sul mondo sottosopra che li assedia è strabiliante: l’orgoglio che si insinua tra le rughe premature dei veri genitori, l’imbarazzo di Adalgisa ora che la figlia adottiva sa di cosa si è capaci, per egoismo o influenzabilità.

Poi il mare, al quale consacrare quella speranza cui altri hanno forzatamente o vigliaccamente abdicato. 

Nella costruzione d’una storia che lega i campi semantici del vivere ai colori gioca, inoltre, un ruolo decisivo la splendida fotografia di Alfredo Betrò, interessante vernissage sulle antinomie della terra d’Aligi di dannunziana memoria.

Le musiche originali sono di Giuliano Taviani e Carmelo Travia: morbide, minimali a scortare i silenzi che governano la pellicola, a battere difformemente e con l’ausilio di strumenti diversi il tempo dei toni freddi della miseria e di quelli caldi, più o meno ingannevoli, dell’opulenza.

Giuseppe Bonito si conferma un regista rigoroso, elegante, meritoriamente incapace di astuzie formali e inessenziali cerebralismi. Gli si riconosce, al netto della ben più agevole direzione di attori del calibro di Ferracane, Scalera e Lietta, un lavoro straordinario con le esordienti Fiore e De Leonardis. Ebbene “L’arminuta” è un film prezioso e, come tale, concorre alla ratifica della felice stagione d’una cinematografia italiana che può nuovamente aspirare al panorama internazionale. 

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