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“TRE PIANI” L’ULTIMO LAVORO DI NANNI MORETTI

Tempo di lettura: 5 minuti

Scalzato a Cannes dal body horror “Titane” della regista francese Julia Ducournau, a dispetto del lungo applauso tributatogli alla prima, “Tre piani” di Nanni Moretti è dal 23 settembre nelle sale cinematografiche. 

Si parte per la prima volta da un soggetto non originale (l’omonimo romanzo di Eshkol Nevo) e, senza troppi preamboli, ci si addentra nel microcosmo sventurato dei condomini di una palazzina, a tre piani appunto. Quattro coppie di diverse generazioni sotto la lente di ingrandimento di Moretti lungo l’asse temporale d’un decennio. 

Per strada l’auto del giovane Andrea (Alessandro Sperduti) uccide una donna e poi arresta la sua corsa in uno studio al piano terra dell’edificio: vetri rotti e libri riversi dappertutto. L’ouverture è tanto tragica quanto rocambolesca. Contestuale alla tragedia, il lieto epilogo della prima maternità di Monica (Alba Rohrwacher): la nascita di Beatrice. Morte e vita sono del resto le due facce della medesima medaglia esistenziale. Dentro c’è quel magma vorticoso di vicende che competono all’individuo e del quale si occupa un Moretti oggi meno caustico e ironico, tuttavia ancora proteso verso quell’universo complesso, e per certi versi drammatico, in cui si dimena l’essere imperfetto per antonomasia: l’uomo. 

L’affresco è squisitamente corale: Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) al primo piano, gli anziani dirimpettai Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Graziosi), la fragile Monica e il marito (Adriano Giannini) al secondo piano, infine i giudici Vittorio, interpretato dallo stesso regista, e la moglie Dora (Margherita Buy). Attorno a loro gravita un nugolo di anime in fieri e che, in dieci anni, non solo assumono le sembianze alle quali concorre la natura, ma pure risultano il prodotto delle traversie cui il mondo adulto fatica a sottrarsi. Ciò non significa che le strade siano ineluttabilmente segnate: sono troppe le variabili dell’esistenza e altrettante le scelte personali del singolo perché il cambiamento non possa attendere dietro l’angolo quello che parrebbe essere un destino scontato.

Al cast maschile, dunque anche a sé stesso che ne fa parte, Moretti assegna abilmente i ruoli di personaggi il cui comune denominatore è una rigidità oltre misura. Unica eccezione Renato, al quale la cinepresa ha appena il tempo di dedicare un minutaggio troppo esiguo e comunque bastevole per fugare ogni dubbio sul suo conto. In lui prontamente scorgiamo quella tenerezza destinata a essere travisata e saremmo pronti a scommettere sulla sua integrità morale. E, se pure Renato vola via troppo presto, la presenza dell’anziano continua ad aleggiare nei luoghi del palazzo, spargendo candore ove invece ci si fa guerra, sempre dondolando tra la colpevolezza e l’innocenza mosse dalle scalcinate personalità che restano.

Scamarcio è irruente, testardo, più o meno casualmente fedifrago. Giannini altrettanto inflessibile tanto nel ripudio del fratello (Stefano Dionisi) quanto nel centellinarsi a casa per lavoro, indifferente alle velate richieste di aiuto della moglie. Moretti è il più ingessato e intransigente di tutti. Nella meccanicità delle parole e nell’impassibilità del volto distinguiamo bene l’aridità. Dei condizionamenti familiari a suo carico abbiamo notizia poco per volta, dopo il definitivo congedo che sdogana le esistenze di chi lo ha subìto.

Gli uomini di Moretti, che ha scritto a sei mani soggetto e sceneggiatura con Federica Pontremoli e Valia Santella, rappresentano insomma l’immutabilità dell’anima quando manca l’ossigeno dell’empatia. Non sarà una questione puramente di genere, eppure in “Tre piani” la linea di demarcazione tra uomini e donne è parecchio calcata. Gli uni compromessi dalla miopia che limita l’orizzonte, le altre per loro natura inclini a guardare oltre, lontanissimo, persino laddove la mente può perdersi. 

Elena Lietti è l’equilibrio fatto persona. Occorreva che Sara costituisse l’argine lucido, ciononostante delicato, alle paranoie e agli errori del marito. Ebbene, l’attrice tanto cara a Niccolò Ammaniti, che l’ha voluta nelle serie “Il miracolo” e “Anna”, ha centrato l’obiettivo mediante l’esatta geometria degli elementi atti a costruire il personaggio. Misurate azioni e reazioni. Modello perfetto d’una femminilità composta persino nella gestione emotiva del tradimento e della separazione. 

Alba Rohrwacher raffina la pellicola d’una fragile amabilità che riversa su chiunque transiti nella sua manchevole esistenza. La sterzata verso l’instabilità non è affatto brusca e mantiene intatta l’aura di docilità e freschezza di quel personaggio così in bilico tra il reale e l’irreale.

Anna Bonaiuto presta la sua esperienza d’attrice alla meno giovane del palazzo, a colei che presumibilmente ha assorbito più di altri, senza potersene liberare e al netto del perdono, le difformità di quel ristretto mondo a quattro porte. 

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Dulcis in fundo, quello interpretato da Margherita Buy è il personaggio più morettiano del film. Vi si mescolano gli ingredienti di molto universo femminile e vi si compendiano almeno due generazioni. L’amore a generare remissività, la remissività a condizionare altro amore. È uno spazio asfittico quello entro cui si muove a passi felpati Dora. La “rinascita” e il recupero di quanto perduto, cui il regista affida l’orizzonte di speranza che si schiude manifestamente in “Tre piani”, coincidono sì con l’uscita di scena del coniuge, ma si inseguono con quella leggiadria che contraddistingue i semplici eroi d’ogni giorno. 

Il cast, di cui fanno parte anche promettenti bambini e giovani, è diretto da Nanni Moretti con un’attenzione talmente meticolosa rivolta all’insieme – tecnicamente pregiato s’intenda – da trascurare quell’affondo sul singolo necessario a fare la differenza in termini di credibilità e profondità del personaggio. Tanto più che il terreno sopra il quale giocano la loro partita i soggetti coinvolti risulta alquanto paradossale ed essi stessi ricoprono ruoli improbabili, talora addirittura abbozzati: due falle d’un sistema che parrebbe inseguire il realismo e però si impantana nell’assurdo senza soluzione di continuità. 

Le musiche di Franco Piersanti, la fotografia diligente di Michele D’Attanasio e chiaramente la regia esperta di Moretti, quantunque convergano verso l’obiettivo d’una pellicola della quale non discutiamo l’eleganza formale, pagano lo scotto d’una scrittura sovraffollata in termini di esuberanza e delle scene improbabili che ne scaturiscono. Inaspettatamente la scena del tango ballato per strada, a spostare su un versante surreale gli individui reali che vi assistono, risulta più sincera degli estenuanti flagelli che si abbattono sul palazzo a tre piani.

I temi trattati, inoltre, riconducono perlopiù al concetto di responsabilità personale dentro i margini familiari e sociali, ma risultano tracce narrative debolmente sviluppate che lo spettatore non ha neppure il tempo di afferrare. Dall’omicidio stradale alla violenza, dal rapporto di coppia a quello tra genitori e figli, dalla presunta pedofilia al tema dell’immigrazione, dall’elaborazione del lutto alla gestione della maternità, allo spettro della malattia mentale. I momenti chiave della trama non bastano per esaurire il discorso sulle numerose, e tutte rilevanti, questioni sollevate dalla scrittura. Vi si aggiunga che taluni passaggi che si auspicava costituissero salutari soste durante le quali irrobustire il senso del particolare hanno piuttosto rincarato la dose dei fatti accumulati. Coi riverberi troppo claudicanti per essere intimamente compresi o finanche vissuti.

A chi si chiedesse se guardare o meno “Tre piani” risponderei che ci sono appuntamenti ai quali non è dato mancare. Poi lì, al cinema, può capitare di tutto. Molto dipende dal nostro personale sguardo sulle cose. Molto ancora dal momento che viviamo, dalla sensibilità dei nostri ricettori, dall’abbandono audace o dalla prudenza che ci diversifica, dal gusto sul quale non è opportuno discutere, persino dall’amore che amplifica la bellezza e non si cura delle imperfezioni. 

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