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DISTURBANTE E SCONVOLGENTE, GIUSI ARIMATEA CI PARLA DI “TITANE”

Tempo di lettura: 4 minuti

Julia Ducournau è la seconda regista della storia di Cannes a vincere la Palma d’Oro dopo Jane Campion. Il suo “Titane” non è solo quel film disturbante e per certi versi sconvolgente che ha fatto saltare dalla sedia il pubblico più reazionario. “Titane” è, insieme a tutto il resto sul quale qui si intende argomentare, la prova inconfutabile di quanto il cinema possa talvolta trovare strade mai battute prima, scoraggiando chiunque debba per forza individuare il genere dentro i perimetri del quale si sarebbe mossa la regista e sceneggiatrice francese. 

Dentro quale genere, del resto, si potrebbe infilare “Titane”? Ci sono le note macabre dell’horror, le deformità e le alterazioni fisiche del corpo del body horror, la disfunzione del principio di realtà della fantascienza, la tensione e il ritmo incalzante del thriller, l’impatto emotivo del dramma e persino il miscuglio di B-movie del pulp. Ci si rassegni, insomma, a lasciarlo fluttuare nell’indefinitezza ove Julia Ducournau ha inteso adagiarlo. “Titane” è sfuggente e, come tale, non si presta alla catalogazione per generi. “Titane” è esso stesso il manifesto della fluidità di genere, una volta varcata la soglia del transumanesimo e ricostruito l’individuo con i mezzi della tecnologia e dell’ingegneria genetica. Una maniera politicamente scorretta, questa, di rinviare a temi oltremodo attuali mostrando, ostentando pure, le mostruosità di un mondo in grado di mescolare carne e metalli. Senza che tuttavia sfuggano, per nulla sottovalutati da Ducournau, quei frammenti di profonda umanità cui al di qua e al di là della soglia ci si aggrappa per edulcorare il reale e il presumibile.

Alexia, interpretata da una sontuosa Agathe Rousselle, è il prodotto della tecnologia che rabbercia corpi, nella totale inconsapevolezza degli esiti agghiaccianti. Eppure lo spettatore al quale non sfugge la perversa ostinazione della bambina che disturba il padre alla guida comprende bene il peso specifico, oltreché della tecnica, della natura stessa dell’individuo. E sono piccole, infinitesimali tracce lasciate per strada dal destino. Sono la prova di quanto sia possibile trasfigurare una forma e di come la sostanza, invece, resti. A dispetto del metallo più resistente.

La placca di titanio impiantata nel cranio di Alexia è l’aggravante di uno stato di cose preesistente. Se il richiamo delle automobili, in termini squisitamente sessuali, fosse antecedente l’intervento alla testa non è dato saperlo. L’individuo rimane pur sempre il prodotto del corpo di dolore personale, familiare e sociale. Persino un organismo cibernetico, sfumati realmente i confini tra essere umano e cyborg parallelamente ai progressi in campo medico, include dunque un substrato naturale che condiziona e dal quale è a sua volta condizionato. 

Alexia è feroce, astuta, sensuale, fragile a dispetto e, paradossalmente, a causa del titanio. Nel mondo folle e provocante della regista francese scompaiono uno a uno tutti i confini prescritti dai manichei: non v’è confine tra uomo e macchina, non v’è confine tra innocenza e trasgressione, non v’è chiaramente confine tra bene e male. Sicché nemmeno alla fotografia di Ruben Impens sfugge l’urgenza di eludere ogni sbarramento, fosse anche quello formale del colore. Così che ci si conformi, in maniera scientifica nel caso di Impens, ai caracolli d’una esistenza sempre ai margini. 

Una scena di violenza può essere sostenuta egregiamente dalla luce piena e dalle note di “Nessuno mi può giudicare”, nella babilonia musicale d’un film che mischia Caterina Caselli e The Zombies, Future Island e Lisa Abbott. Con risultati eccellenti, s’intende. Poco dopo, magari, la virata verso i chiaroscuri e i silenzi di un universo intimo, come pochi impermeabile.

E questo mondo senza confini è dipinto con quella grazia registica in virtù della quale si ghermiscono i drammi e parimenti i malesseri che vi soggiacciono. Un’eleganza formale che si dispiega nella differenziazione di ritmi e sequenze. Ché assai diversificati sono i mezzi narrativi di cui si serve la regista per raccontare l’inenarrabile. Ci si concentra spesso su una cosa, perlopiù su un personaggio alla volta; il resto allora è fuori fuoco, si perde nella definitezza di un’anima e prepara in solitudine perfetta la reazione, sempre inimmaginabile. 

Alexia, intimamente fluida e versatile, fa sesso con una Cadillac e resta incinta. Non vi sono limiti – si rammenti. Il confine con l’irreale è stato spazzato via nell’esplicito proponimento di affondare il coltello nell’assurdo e girarlo all’infinito, affinché vi grondassero, neri come grasso d’olio, orrore e dolore. 

Tuttavia, in questo avvicendamento licenzioso e quasi onirico di deformità, si infila l’inattesa prospettiva di quell’armonia che solo l’amore può generare. A Vincent, interpretato da un generosissimo Vincent Lindon, manca un figlio esattamente come ad Alexia manca un padre. Camuffare la propria femminilità, già peraltro squassata dal titanio e intossicata dalla mascolinità inquinata, è l’ennesimo atto di dolore, compiuto e recitato, allo scopo di sopravvivere. E qui, nell’approssimarsi di due anime perse, si intravede un barlume di speranza per quel genere umano che quotidianamente, a suon di steroidi e fasce elastiche, sfida i limiti del proprio corpo. 

Alexia e Vincent sono il prodotto marcio di un mondo che non c’è più. Ma resistono, fanno ogni giorno la propria personale rivoluzione. Forse sognando una nuova realtà, bruttissima e bellissima insieme.

Nascita e morte, intanto, continuano ad avvicendarsi tra la carne e i metalli. La verità è che la definizione di qualsivoglia anomalia è capziosa. La verità è che dalla difformità, non già dalla normalità, nascono nuove cose. La verità è che abbiamo il maledetto vizio di definire i generi, di imprimere etichette e solo sporadicamente rammentiamo quanto complessa e ineffabile sia la persona. 

Mettere in scena una realtà disumana e raccapricciante come quello di Alexia sarebbe stato un mero esercizio di stile se Julia Ducournau, gettandoci addosso la più cieca ferocia, non ci avesse rassicurati sulla sopravvivenza della pietà, di cui una sequenza ne restituisce le sembianze marmoree, finanche nei recessi a forza disumanizzati dell’universo.

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