L’8 marzo, in esclusiva su Chili, l’uscita di “Credo in un solo padre”, opera prima di Luca Guardabascio. La data del lancio non è casuale: il film, che trae spunto dal romanzo “Senza far rumore” di Michele Ferruccio Tuozzo e si basa su fatti realmente accaduti, traspone cinematograficamente la violenza sulle donne. Anzi te la scaraventa addosso. Senza edulcorarla, senza contenerne l’efferatezza. Una sequela di orrori all’interno delle mura domestiche, il delirio d’onnipotenza d’un individuo mostruoso, la docilità della donna in un sistema patriarcale cui quarant’anni di storia persino esacerbano le disumanità. Ché più il mondo fuori cambia, meno nell’angustia della grettezza si accondiscende al cambiamento. Allora l’ostinazione diventa orrore, la violenza finanche inconcepibile abitudine.
Tra la Campania e la Basilicata si consuma una tragedia che affonda le radici nel lontano 1962 e schiaccia, uno a uno, tutti i personaggi rimasti verghianamente avvinghiati allo scoglio familiare. Dentro la cameretta accanto alla quale si esercita la violenza, amplificata dalle voci e dal buio arancio della pellicola che ne suggerisce i riverberi, due bambini scelgono anzitempo il proprio destino: Donato fugge, Gerardo resta.
Ci si domanda se sia questione di ingegno, di percettibilità, di resilienza. Certo è che tutte le figure maschili di questo film, fatta eccezione per il povero e delizioso Ciriaco, cui la fatalità o le botte hanno sottratto la possibilità di scegliere, imboccano consapevolmente una strada e la percorrono. Nella totale assenza di dubbi o ripensamenti.
Il padre, nella generosa interpretazione di Massimo Bonetti, è un orco. Donato (Francesco Baccini) ne prova profondo disgusto. Gerardo (Giordano Petri) continua a onorarlo, come da comandamento. Ciriaco (Claudio Madia) lo subisce, zitto e ancora zitto. Con gli occhi che vedono ogni cosa. Col le cicatrici sulla pelle e un disprezzo trasparente.
E le donne, mogli e madri, cosa pensano? Hai ragione di credere che si spengano poco a poco nella rassegnazione. Lacrime a rigare i loro volti e qualche Santo da pregare quando i giorni diventano un martirio e i carnefici te li ritrovi dentro casa.
La regia di Guardabascio, intenta a pescare nel torbido d’una sola anima e trasferire la violenza senza filtri, commissiona unicamente ai volti la trascrizione del dolore. Maria (Anna Marcello) è allora l’immaginetta di una martire sulla quale converge il malanimo di tutto un mondo: dalla bestialità del suocero all’imperturbabilità del marito, alla cattiveria della gente, alla reticenza di chi sa e non muove un dito. Su tutto aleggia un’atmosfera sacra di significanti, di occhi al cielo e segni della croce. Si frequenta Dio e, a voler essere buoni, si ignora il prossimo.
C’è un unico personaggio che, da fuori, punta il dito: è lo zio Domenico (Flavio Bucci). Del resto si può essere consanguinei senza neppure assomigliarsi.
Tutto quel che accade occorre a puntellare lo sdegno dello spettatore. La sceneggiatura di Guardabascio e Michele Ferruccio Tuozzo punta dunque sulla reiterazione della violenza, intercalata da brevi sprazzi di tranquillità apparente, che si dipana lungo un significativo arco temporale. Qualcosa si sarebbe potuta trascurare, ma a un’opera prima si perdona sempre quel superfluo di cui solo con gli anni ci si libera senza versare qualche comprensibile lacrima. Il lavoro peraltro è sincero, trasuda cuore e fatica. L’impronta stilistica, tra le sproporzioni della realtà che si effigia, è misurata. La fotografia di Francesco Paglioli concorre alla buona riuscita di un film che dimostra di riconoscere all’arte il potere straordinario di raccontare le atrocità della vita.
La scena finale allarga l’obbiettivo sui campi, immensi. Qualcuno fugge. Le sagome si rimpiccioliscono via via che si allontanano da quel luogo, figurato e immobile, che sa essere l’orrore. Sempre più minuscole, sempre più lontane, sempre più salve.