Vent’anni esatti a perorare la causa di Paolo Sorrentino. Dai tempi in cui mi si chiedeva addirittura chi fosse a quelli durante i quali gli piovevano addosso le critiche più disparate: eccesso di formalismo, cinema di maniera, povertà di contenuti. E potrei continuare all’infinito. Difendendo lui, difendevo intanto i vari Pisapia, Di Girolamo, Geremia, Cheyenne, Gambardella, Ballinger. Ho difeso pure Andreotti e Berlusconi (quelli di Sorrentino, s’intende). Li ho difesi praticamente tutti perché li trovavo straordinari. E straordinario, o meglio fuori dall’ordinario come da etimologia latina, trovavo il suo cinema. Per quella destrezza che gli riconoscevo nel tenere in un certo modo la macchina da presa, con l’occhio sempre attento a un insieme composito che tuttavia non trascurasse il minimo isolabile dettaglio. Per quella sovrabbondanza a livello di scrittura che ho amato sul grande schermo e, analogamente, sulla carta. Per l’opulenza d’un mondo interiore che ha un mucchio di ferite da drenare. E per quel drenaggio che scialacqua sì, ma con classe e ingegno inusitati.
Posto, dunque, ch’io sia di parte, come non gongolare oggi della bella risposta di Paolo Sorrentino ai suoi detrattori?
“È stata la mano di Dio”, dal 24 novembre nelle sale italiane, mette un punto fermo alle polemiche restituendoci il Sorrentino esuberante di sempre, per buona pace di chi adora i trenini delle feste che non vanno da nessuna parte, e un Paolo così autentico da rovesciare sé stesso dentro a una pellicola che è la prova di come l’arte, declinata in tutte le sue forme, sappia essere un orizzonte possibile e straordinario di salvezza.
Si parte dal mare, per sua natura incerto, azzurro sulla carta eppure prodigo di sfumature né più né meno di quanto sappia esserlo la vita. Quelle medesime sfumature cui un Tony Pagoda qualunque, esaurita la sfilza delle insopportabilità, riconosceva una parvenza di grazia non reperibile altrove.
E azzurra è pure la maglia di Maradona. Azzurra, se chiudi gli occhi, è Napoli. Per quel mare e per il calcio che talora sommergono i mille colori, e le paure, d’una città a nessun’altra uguale.
Si parte, stavolta, senza divinare la disgrazia. Tutt’al più ci si imbatte in un San Gennaro (Enzo Decaro) in Rolls Royce che adesca, a fin di bene, la sensuale Patrizia (Luisa Ranieri). Un munaciello, il miracolo, una pacca sul sedere e via: s’aprono davvero le danze sulle contraddizioni dell’umanità decadente tanto cara a Sorrentino.
E poco dopo ci si addentra nello spettacolo del vivere al quale ci ha abituati il regista partenopeo: roboante, ingordo, all’occorrenza grottesco, traboccante di individui eccentrici, più o meno fagocitati dalla realtà, ma pur sempre autonomi nel calcare le scene della propria esistenza, ora con sarcasmo ora con severità, ora con cinismo ora con impressionante bislaccheria.
Dal microcosmo d’una famiglia medio borghese nel vivo degli anni Ottanta, già pronta allo zapping che di lì a poco avrebbe scandito i secondi più insulsi di intere generazioni e, per sua fortuna, ancora sprovvista di quella macchina infernale chiamata telecomando, ci si affaccia su tutto un parentado stravagante e spassoso degno delle famiglie di Scarpetta e De Filippo. C’è la signora in pelliccia (Dora Romano) che si ingozza di mozzarelle, sboccata e ripugnante. C’è lo zio Alfredo (Renato Carpentieri) al quale tutto appare deludente, finanche il mare. C’è la zia Patrizia, a incarnare il sogno erotico dei nipoti. E c’è il marito di zia Patrizia (Massimiliano Gallo), sempre meno geloso e sempre più rassegnato. Dulcis in fundo, ci sono pure i fidanzatini nuovi di zecca: lei che sembra uscita da un quadro di Botero, lui stagionato, sciancato, laringe elettronica. Sorrentino, servendosi peraltro d’un cast straordinario, calca la mano sulle stramberie e ammanta il primo tempo del film d’una ironia che presumibilmente non avrebbe mai potuto ricavare, non almeno in tal misura, nei salotti romani snob frequentati da Jep Gambardella. Tant’è che qui lo sguardo del regista è più indulgente, affabile se vogliamo. I bla bla bla bla bla sotto ai quali va a nascondersi la vita – che si tratti del vociare d’una mondanità altolocata o del banchetto d’una vivace famiglia napoletana – sono provvisti nei film di Sorrentino d’un fascino immenso. E tra le trasparenze del vociare, nei dialoghi opulenti che sciorinano sentenze, si intravede persino qualche verità. Gli anni si nascondono nelle case. I pranzi, i pentoloni da riempire di salsa diventano riti ancestrali. I luoghi richiamano quel mondo partenopeo di visioni e manierismi che il suo cinema riverbera da sempre.
Poi, dal magma di congiunti con affaccio sul mare, ci si sposta nelle stanze di marito (Toni Servillo), moglie (Teresa Saponangelo) e figli, precisamente Marchino (Marlon Joubert), Daniela (Rossella Di Lucca) e Fabietto (Filippo Scotti). Tutto regolare, pregna la quotidianità persino d’una autentica amorevolezza. Eppure non si sa mai cosa succede veramente nelle case degli altri. Luci e ombre si avvicendano. Fabietto, protagonista inedito nel cinema di Sorrentino che di solito predilige chi ha dinanzi a sé meno futuro di quanto passato si è lasciato alle spalle, si dimena tra le conseguenze d’un tradimento del padre e quelle dell’acquisto di Diego Armando Maradona. Tragiche e fugaci le prime, assolutamente capitali le seconde. Ché il calcio può salvarti la vita.
Il secondo tempo vira, infatti, sul dramma intimo del protagonista. Si eclissa Sorrentino, rimane Paolo: l’usuale coraggio moltiplicato per cento, anzi per mille. La propria personale tragedia che si presta alla cinepresa, procedendo per accumulo fino a un certo momento e poi sottraendo e sottraendo ancora. Guai a disunire e disunirsi. E ci sta non riuscire a essere felici dopo una disgrazia. Ci sta trovare scadente la realtà. Ma c’è sempre una baronessa (Betty Pedrazzi) che può darti una mano a guardare il futuro. Come c’è sempre un treno da prendere o un sogno, per trasformare il tuo dolore. Antonio Capuano (Ciro Capano) aveva del resto parlato a Fabietto di speranza, in un monologo straordinario grazie al quale Sorrentino dialoga una volta di più con il Paolo che è stato, prima di andare lontano.
Le cadute, in termini puramente esistenziali, cagionate dal decadentismo post contemporaneo, lasciano il passo qui a un processo salvifico di cambiamento che prelude alla risalita di Fabietto. Messa eccezionalmente da parte l’indolenza, tipica dei suoi personaggi, Sorrentino ci parla di sé, dei paesaggi della sua Napoli che gli scorrono innanzi oltre il vetro del finestrino, di ciò che a quella città deve, di una salvezza concepita dal caso e poi doverosamente inseguita.
Sorprende anche stavolta, e ancor più stavolta, come la magniloquenza della narrazione che intreccia esistenze, correndo sul filo dell’amicizia, del desiderio, della benedetta fatalità, si dispieghi registicamente a mo’ di basamento per reggere l’impianto equilibratissimo di un film che riconsegna al necessario persino il superfluo.
In “È stata la mano di Dio” la commedia e il dramma sono disposti in un arco temporale così esiguo da rendere appieno l’idea di quanto vacillante sappia essere la vita. E in quel tempo piccolo Sorrentino passa in rassegna tutto ciò che ribolle: dal VHS a noleggio al cinema di Fellini, dalla disillusione al sogno, dal calcio alla vita. Eludendo la retorica persino quando fa i conti col passato, col suo passato. Con il trauma della perdita su cui grava il peso di non aver visto per l’ultima volta i suoi genitori, intossicati dal monossido di carbonio nella casa in montagna a Roccaraso.
Il viaggio verso Roma allora non disunisce, piuttosto rimette insieme i cocci di quel vaso andato in frantumi sul quale Sorrentino ha trasversalmente indugiato finora, senza darlo a vedere. Il suo cinema ha accolto e magnificato molte anime già perse. Il dolore le attraversava e a mani basse vinceva sulla sregolatezza, sul cinismo, sull’illusione. Il misticismo aleggiava su un mondo vorace, esibizionista e menzognero. L’arte era lì, più o meno sincera, e talora inventava sé stessa eleggendo a “bellezza” violente testate o i colori di una bambina senza infanzia.
Ora Sorrentino affonda la lama sulla ferita dalla quale tutta la sua arte trabocca. Un gesto coraggioso, forse una maniera di esorcizzare una volta di più il dolore, di certo la conferma di quanta complessità possa celarsi dietro l’opulenza visiva, dietro quello che taluni chiamano manierismo, dietro l’eccesso di simbolismo al quale molti restano inchiodati, ignari delle potenzialità allusive infinite e dell’essenza stessa della vita, ‘na strunzata come tante, che si cela dietro la creazione.