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RECENSIONE DI “THE MAURITANIAN”

Tempo di lettura: 3 minuti

Da “Guantánamo Diary” di MohamedouOuld Slahi l’audace pellicola “The Mauritanian” di Kevin Macdonald, dal 3 giugno su Prime Video. Il regista scozzese, premio Oscar nel 2000 per il documentario “Un giorno a settembre” sull’attentato di Monaco durante i giochi olimpici del 1972, indaga stavolta sulla vita del cittadino mauritano rinchiuso per 14 anni e 2 mesi nella prigione cubana senza un’accusa concreta né un regolare processo.

L’11 settembre 2001 aveva schiuso al mondo la vulnerabilità degli Stati Uniti d’America. Occorreva pertanto combattere al Qaida senza indugio e con ogni mezzo possibile. Non ci si spiegherebbe altrimenti i crimini perpetrati in nome di quella salvaguardia del mondo occidentale presto erosa dal desiderio di vendetta.

Si rammenti che dei 779 detenuti di Guantánamo in 8 appena furono accusati e solo 4 di questi risultarono effettivamente colpevoli: ciò basta a riconsiderare, anche sulla scorta del legaldrama d’impronta hollywoodiana, la strada percorsa dall’America per combattere il terrorismo islamico. Sono scomode verità, certo. Sono ferite aperte a livello giudiziario e anzitutto politico. Sono fallimenti che degenerano in disumanità, dai metodi di Donald Rumsfeld, Segretario della difesa con George W. Bush, a quelli dell’amministrazione Obama, fiacca nel proponimento di chiudere Guantánamo.

Presentato alla Berlinale 2021, “The Mauritanian” è una pellicola che garbatamente scruta da vicino il dramma del detenuto MohamedouOuld Slahi (Tahar Rahim) e la battaglia legale intrapresa dall’avvocato Nancy Hollander (Jodie Foster), in perenne lotta contro il governo americano nella difesa di cittadini quasi sempre colpevoli.

All’interno dell’eccellente cast (a Jodie Foster è stato anche assegnato il Golden Globe come miglior attrice non protagonista), Benedict Cumberbatch nei panni del tenente colonnello Stuart Couch, incaricato di raccogliere prove contro Slahi e che per questa ragione esamina verbali segreti di interrogatori: la condotta immorale degli americani per estorcere confessioni ai detenuti è ora sotto gli occhi dell’avvocato militare e dello spettatore. Crollano un mucchio di certezze, si rimette tutto in discussione.

Lungi dalla spettacolarizzazione del dolore, ci si concentra sul dramma del protagonista passando in rassegna i lunghi anni di segregazione.

Il mondo fuori scorreva e Slahi letteralmente resisteva dentro quella scatola di torture che prostra il corpo e la psiche di un individuo. Guantánamo è un lager, non ha ragion d’essere: è solo il frutto di odio smisurato. E paure.

Forse poco più di due ore non sono bastate a ripercorrere le tappe di un’esistenza falcidiata dalla vendetta. Forse la sceneggiatura ha preteso di dire così tanto da trascurare quei particolari che corroborano la potenza dell’insieme. Ma l’intento di denuncia che si cela dietro una storia di ingiustizia è manifesto almeno quanto il sigillo documentaristico sul finale, coi filmati di repertorio che ritraggono un nuovo Slahi intento a canticchiare “The Man in me” di Bob Dylan, mentre sorride dentro quella t-shirt bianca che sa di libertà ritrovata.

Di lui ci resteranno impresse le immagini dei tempi di prigionia: grande interpretazione di Tahar Rahim e l’uso del 4:3 a circoscrivere stilisticamente la reclusione.

L’impianto claustrofobico della pellicola è riservato solo al dramma; oltre Guantánamo i volti, specie quello dell’avvocato e della sua associata Teri Duncan (Shailene Woodley) sanno illuminarsi di ostinazione e speranza. Fuori sembra tutto regolare, tutto persino liberale. Fuori la linea di demarcazione che separa i buoni dai cattivi sembra essere straordinariamente netta. Fuori passano sette anni perché un uomo torni libero dopo la sua assoluzione. E passano in fretta, se è il caso. Mentre a Guantánamo il singolo istante sa durare un tempo indefinito.

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Il bisogno di trovare colpevoli e placare gli animi degli americani dopo l’attentato alle Twin Towers ha di fatto aperto quel cammino lastricato di errori, e orrori, che giunge fino al campo di prigionia ove sistematicamente si violano le Convenzioni di Ginevra.

Kevin Macdonald non ha tuttavia calcato la mano sulle violenze fisiche subite da Slahi. Virare verso universi cari a Park Chan-wook non avrebbe giovato alla causa e avrebbe rischiato di deprezzare le ripercussioni emotive sul singolo d’una disumanità collettiva e mai realmente disconosciuta.

Al di là delle questioni puramente stilistiche, molte delle quali, nel caso di un film misurato cui non si possono imputare gravi vizi, poggiano per lo più sul gusto personale, occorre riconoscere a certa cinematografia il merito di investigare la storia, anche quella recente, non fosse altro che per graffiare sulla lavagna del realismo e produrre quello stridio molesto cui non ci si può e non ci si deve mai assuefare.

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