L’intervista, in esclusiva per NdS,
a Duccio Forzano.
In un mondo fatto di immagini effimere, spesso specchio delle concezioni che veicolano, occorrerebbe forse recuperare il concetto originario di estetica, nella sua essenza di indagine artistica.
Il bello, nelle sue forme di espressione visiva, non coincide con un dato oggettivo e non si configura soltanto come categoria estetica, ma come qualcosa che “arriva” a chi osserva attraverso la cura del dettaglio, l’attenzione empatica verso lo spettatore, la passione che si trasmette nei termini di rispetto verso il racconto.
L’educazione al bello, così inteso, passa dalla cultura e dalla capacità di comunicarlo con concretezza, passione e umiltà, come ha fatto Duccio Forzano, reduce dalla regia televisiva dell’Eurovision, rivolgendosi ai molti giovani presenti presso l’Auditorium del complesso Aldo Moro dell’Università di Torino in occasione dell’ultimo incontro della rassegna UniVerso “The sound of beauty”, dove ragazze e ragazzi, studiosi e futuri operatori del mondo dello spettacolo hanno avuto modo, grazie alle parole di Forzano, di “toccare” ciò che c’è dietro uno schermo, un palco, un’immagine.
È stato un incontro rivelatore, e per certi aspetti illuminante: una di quelle rare occasioni capaci di orientare i ragazzi in un mondo spesso fatto da “dietro le quinte” come quello del mondo dello spettacolo, e regalare la consapevolezza di cosa significhi dedicarsi al proprio lavoro con una visione artistica, umana e professionale.
Duccio Forzano “arriva” a chi guarda le sue immagini, ma anche a chi ascolta le sue parole. Quello che emerge con forza, al termine dell’incontro, è il nesso artistico – costitutivo del lavoro di Forzano –tra curiosità intellettuale e ricerca espressiva. Una ricerca condotta con talento, passione, senso critico e – verrebbe da dire – gratitudine, che ha nella fedeltà al racconto quale strumento di comprensione e interpretazione della realtà, la sua stella polare.
Dietro la fotocamera di Forzano non c’è soltanto uno sguardo che osserva – e ascolta –la realtà, ma una precisa visione artistica.
NdS: In cosa consiste secondo Lei l’essenza più profonda della regia? Percepisce delle differenze tra le diverse forme della regia (televisiva, teatrale, cinematografica)?
D.F.: Regista è regista, al di là del cinematografico, teatrale o televisivo: il regista è chi si prende in carico di raccontare qualcosa. Poi, sulla base dei mezzi che usa, può essere un regista teatrale o cinematografico.
Si pensi ad esempio a una figura come Zeffirelli. Come definirlo, se non semplicemente un regista? Regista vuol dire raccontare, e raccontare vuol dire aver rispetto di ciò che accade sul palco, mettersi a disposizione del racconto e delle sue esigenze, non dare sfoggio di virtuosismo non funzionale alla narrazione.
Esserci, ma essere invisibili. Questo è un regista.
NdS: Lei è conosciuto soprattutto come regista televisivo, ma è un “creativo trasversale” che si è nutrito e misurato con diversi linguaggi artistici. In che modo le suggestioni provenienti da altri codici entrano nel suo racconto visivo?
D.F.: In tutti i modi. Anche la vita di tutti i giorni entra nel mio linguaggio visivo. Lo specchietto del tassista, il vetro di un bagno che si oscura e diventa trasparente sono diventati stimoli per lavorare a idee scenografiche.
Un regista veicola in primis ciò che vede. Quindi non solo la tecnologia del settore mi incuriosisce e mi aiuta, ma anche tutto ciò che vedo intorno a me che può diventare utile per migliorare un racconto.
NdS: La Sua produzione registica esprime una personale visione artistica rispetto alla concezione estetica dell’immagine. Quale pensa possa essere il ruolo della regia televisiva nel processo di ridefinizione di un canone figurativo ed estetico?
D.F.: Mi si chiede troppo (sorride, ndr). Come dicevo, credo la regia sia una soltanto, a prescindere dagli strumenti e dai mezzi di comunicazione.
Rispetto ai mezzi che ho a disposizione, racconto. Come posso migliorare? Restando curioso e, soprattutto, rispettoso.
Innovare non vuol dire meravigliare e sbalordire a tutti i costi: vuol dire anche togliere, essere “meno”, arrivare – se necessario– a essere minimale.
Io sono un fan della televisione anni ’70, quella di Falqui e Trapani. Una televisione che continuo a guardare e da cui cerco di imparare. Per me quella era la televisione innovativa, non quella che facciamo noi adesso.
NdS: Innovazione non tesa alla “maraviglia” di ascendenza barocca, ma ricondotta alla sua radice etimologica: l’invenio, l’invenzione, la ri-creazione, quindi.
D.F.: Codificare col proprio pensiero, con la propria visione, ciò che abbiamo tutti sotto gli occhi. Ri-codificare ciò che è conosciuto: non posso raccontare l’emozione a chi non l’ha mai vissuta.
NdS: La passione per il racconto è il trait d’union della Sua vicenda professionale e artistica, che l’ha portata a sperimentare diversi codici espressivi, tra cui anche la musica. Oggi che spazio riveste la musica nella Sua narrazione visiva?
D.F.: La musica mi è servita per capire il ritmo. Io ho lavorato molto con la musica e con molti grandi artisti della musica. Ma anche le parole hanno ritmo, hanno delle pause, un’intonazione, una cadenza. Nella regia è fondamentale leggere le situazioni, coglierne il ritmo, prevedere e anticipare la battuta successiva. Scegliere i tempi. Anche parlare può essere musicale. Se noi due dialoghiamo, e riusciamo a trovare un ritmo, le nostre parole sono una melodia.
“Il mondo è tutto ciò che accade”, ha scritto Wittgenstein. Vedere ciò che accade, allora, è essere nel mondo, anche in quello che si dipana davanti alla cinepresa. Soprattutto, se dietro, c’è lo sguardo di un artista come Duccio Forzano.