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Dal film "Vermiglio" - Foto via Ufficio Stampa Biennale Cinema per Venezia 81

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Recensione “Vermiglio” – Realismo moderatamente magico

Maura Delpero procede per sottrazione: non racconta attraverso la voce dei personaggi, non imbastisce una storia mediante i classici espedienti narrativi, non segue un percorso drammaturgico lineare, men che meno confortevole. Mira piuttosto, oltretutto in un tempo che adopera la tecnologia per creare ambienti virtuali, a una vera e propria esperienza, immersiva e sensoriale, individuale, autonoma.

La recensione a cura di Giusi Arimatea

Tempo di lettura: 3 minuti

Vincitore del Leone d’argento – Gran Premio della Giuria a Venezia, “Vermiglio” è l’opera seconda della regista bolzanese Maura Delpero, la cui impronta stilistica diventa sempre più riconoscibile e in grado di porsi, senza sforzi o particolari acrobazie, ai vertici di un panorama cinematografico nazionale che si dimostra espressivamente maturo e consapevole della propria tradizione. 

“Vermiglio”, ambientato sul finire della Seconda Guerra Mondiale nell’omonimo comune montano del Trentino, coniuga abilmente poesia e visione soggettiva della realtà, restituendo allo spettatore un mondo appena sfiorato dalla macchina da presa, ciononostante penetrabile, cromaticamente deciso, d’un vigore e d’una eleganza comunicativa inusitati. 

Maura Delpero procede per sottrazione: non racconta attraverso la voce dei personaggi, non imbastisce una storia mediante i classici espedienti narrativi, non segue un percorso drammaturgico lineare, men che meno confortevole. Mira piuttosto, oltretutto in un tempo che adopera la tecnologia per creare ambienti virtuali, a una vera e propria esperienza, immersiva e sensoriale, individuale, autonoma. Proposito che richiede grande onestà e la precisa volontà di andare oltre il visibile, di affrancarsi dalla sovrabbondanza delle parole, per cogliere la complessità dell’esistenza attraverso la semplicità e la schiettezza delle forme che delimitano il reale. 

Ci troviamo dinanzi a un realismo moderatamente magico, ove il surreale, dentro ai contesti ordinari e nella comune condizione esistenziale, coincide con la straordinarietà delle singole anime in gioco. 

Il gorgo della guerra, un mondo in bilico tra tradizione e mutamento, la nascita e la morte, il senso del peccato e l’istinto alla trasgressione, le asprezze della vita e le soavità che talora vi si oppongono: nulla, dunque, che sia drasticamente definito. Solo un ensemble di chiaroscuri per dipingere una realtà semplice e complessa allo stesso tempo. 

Così, percorriamo i sentieri innevati della montagna trentina o ci addentriamo nelle modeste dimore degli abitanti per cogliere l’essenza non già delle cose, ma delle anime di cui i luoghi costituiscono il correlativo oggettivo. Da una parte l’elementarità genuina dei bambini, dall’altra la tortuosità, e in certi casi l’ambiguità, degli adulti. Tutti cinematograficamente efficaci, credibili, talora finanche potenti. 

A Maura Delpero si ascrive, tra le altre cose, la capacità di armonizzare un cast quanto mai variegato, attorialmente e anagraficamente. “Vermiglio” è del resto un film corale e che valica la contingenza, della guerra come della realtà familiare, per assurgere a una dimensione universale. Umana e universale. 

Pietro, un giovane disertore siciliano, interpretato da Giuseppe De Domenico, si rifugia a Vermiglio dopo aver portato in salvo un commilitone ferito. Ad accoglierlo la comunità, che gli è riconoscente e insieme diffidente, della quale è guida morale e culturale il maestro di scuola (Tommaso Ragno), deputato alla formazione dei giovani e a quella dei figli, vittime di uno stile genitoriale opinabile che condiziona il clima emotivo generale in casa Graziadei. 

La figlia Lucia (Martina Strinsi) sposa Pietro e quel matrimonio è l’ennesimo dramma che mette a soqquadro la tregua, a repentaglio la stabilità, provvisorie le certezze, vane le speranze. Come se tutto, anche dopo la guerra, fosse sempre destinato a infrangersi. 

Ciò che accade il più delle volte non si vede, semmai si percepisce grazie alla meticolosità di uno sguardo registico che diventa perfezione formale nell’alternanza studiata dei campi lunghi e dei primi piani, simboli entrambi delle variazioni emotive dei personaggi. 

C’è Adele (Roberta Rovelli), la moglie del maestro, solo all’apparenza senza pretese. È invece una donna – e una madre – che ha occhi per vedere. Anche quando sembra tenerli serrati. C’è Ada (Rachele Potrich), lacerata dal peccato. C’è la Flavia (Anna Thaler), la figlia prediletta, quella che può studiare. E c’è il povero Dino, un giovane da bocciare e a cui non serve alcun diploma per lavorare nei campi. Tutti inquieti, tutti cagionevoli. Solo la logica infantile a mitigare l’indecifrabilità e l’onerosità del reale. 

La fotografia, le musiche, la scenografia e i costumi sono al servizio della poesia, pervasa ora di dolore ora di rassegnazione, in rari casi di speranza. Ed è una poesia che riporta al buio delle sere in cui ci si domanda quale sia il senso di ogni cosa, con brevi e amabili istanti di iridescenza per lo più innescati da chi ancora tutto chiede, tutto deve ancora scoprire. Senza retorica e con la forza della sostanzialità, cui concorre l’uso del dialetto, in sintonia con i luoghi, con la comunità, eppure sgradito al personaggio indecifrabile per eccellenza, il maestro Cesare, genitore tossico che si lascia accarezzare l’anima da Chopin e Vivaldi. A riprova di come sia complesso l’essere umano, col suo carico di segreti, di  contraddizioni, di ossessioni, di perversioni, di fragilità. Poi, al variare delle stagioni, anche l’uomo cambia. Allora ricomincia la storia. E si riaccende la speranza.

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