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Ballata per San Berillo

Tempo di lettura: 5 minuti

Un rito di emendamento del male

Il quartiere di San Berillo alla fine degli anni 50 era un’area, popolata da 30.000 abitanti, che si estendeva per 240.000 metri quadrati. Ed era un errore tra gli spazi di quella Catania tardo barocca che non intendeva mescolare il clero e la nobiltà agraria al popolo della zona retrostante l’antica porta di Aci.

San Berillo, vittima di una propaganda denigratoria delle quale v’è ampia traccia nei documenti, pertanto indegna d’abitare il cuore del capoluogo etneo, andava insomma traslocata.

E di quel “trasloco” fornisce un magico e ipnotico resoconto il drammaturgo e attore catanese Turi Zinna nella sua “Ballata per San Berillo”. La regia è di Elio Gimbo, le musiche originali eseguite dal vivo di Fabio Grasso, la produzione Retablo Dreamaturgy Zone in collaborazione con Palcoscenico Catania.

E dove poteva andare in scena questo illuminante spaccato di storia e vita se non nel quartiere ove tutto è cominciato e per le strade, sulle facciate delle quali si riconoscono ancora oggi i segni di quel passato che il teatro non si rassegna a seppellire?

Trame di Quartiere, che ha ospitato la compagnia, è il frutto del recupero dei bassi dello storico Palazzo de Gaetani, situato nel cuore del quartiere. È un palazzo di quasi 150 anni, posto all’angolo tra via Pistone e via delle Finanze. Da dentro s’ode un brulicare di vita distintivo del luogo nonché perfetta cornice sonora di quell’affresco di parole con cui Turi Zinna ha di fatto riprodotto una piccola e paradigmatica porzione di mondo.

Si accavallano così le note, ora morbide ora ruvide, di Fabio Grasso e il vociare degli abitanti di San Berillo in un sabato sera che monta chiassoso. E a sovrastare i suoni, i rumori, quel viaggio nell’oltretomba sul quale si dipana l’intricata matassa drammaturgica di Zinna. Una storia se non del tutto vera, quasi per niente inventata che, a raccontarla, si deraglia ogni momento. Sono digressioni su digressioni, parentesi che s’aprono e quasi mai si chiudono. Una narrazione multi-livello e multi-strato che mescola persino i diversi IO narranti. L’effetto è strabiliante.

Dalle voci disperate della povera gente cui tocca abbandonare il proprio minuscolo universo a quelle dei “Signori” che ne hanno deliberato il nuovo destino, dagli onesti ai lestofanti, dalle vittime agli assassini, Turi Zinna passa in rassegna la storia, con la cura del documentarista e l’abilità affabulatrice dell’attore teatrale. Passa attraverso una marea di registri linguistici e a ciascuno adegua le pose, più o meno sguaiate, di questo meridione che parla e s’agita, che gesticola, che dice e non dice con gli occhi, che amplifica e minimizza, a seconda di come tira il vento.

Turi Zinna è generoso, instancabile, versatile, concentrato a dispetto di un attorno che proprio non vuol saperne di tacere, di arrendersi al teatro. Turi Zinna è un interprete straordinario che letteralmente non vive un personaggio, ma li vive tutti e ce li consegna in una maniera che richiama certo neorealismo cinematografico. Così che davanti ai nostri occhi sfilino il barbiere, il meccanico, Anna che accupa, la signora con l’acqua ai polmoni, la donnona dal sedere grosso, lor signori della cumacca, un nugolo di padri e figli e generazioni e anime che ruotano attorno a un quartiere tutto da abbattere.

Interessante che a compiere il viaggio durante il quale è possibile guardare con occhi nuovi la realtà siano due giovani e Pippo Fava. Una coppia “abusiva” e un uomo già condannato che fa da driver cristologico, tra il cemento pornografico dei palazzi, ai discepoli improvvisati. Una scelta che drammaturgicamente trova la sua ragion d’essere nella presumibile esigenza non solo di mescolare continuamente le carte, ma pure di temperare col sogno psichedelico la realtà nuda e cruda che si staglia innanzi agli occhi dello spettatore e della quale la regia di Elio Gimbo scandisce scrupolosamente il ritmo cui subordina le geometrie disegnate dall’attore sulla scena.

L’assassinio di Pippo Fava, il 5 gennaio 1984, svela paradossalmente una Catania sotterranea. La stessa alla scoperta della quale partono i tre protagonisti dell’amaro fantasy di Zinna. Il tempo della pallottola che dalla canna della pistola di Aldo Ercolano raggiunge il corpo di Fava. Un tempo che a teatro può diventare addirittura eterno. Un atto politico tutta l’operazione.

Tu intanto senti battere la pioggia, senti la musica di Giovanni Spanò, senti gli ordini perentori dei Carabinieri, la disubbidienza del popolo, le grasse risate dei lestofanti. Senti tutto, anche quello che non c’è. Il teatro che ricrea il mondo. Un mondo, in certi casi, che mette i brividi.

Da uno zainetto di Batman e da un fucile a canne mozze si parte. Poi si prosegue, lungo l’asse di vite che si avviluppano, fino a confondersi. Infine ci si ritrova nelle viscere di una città, di Catania, che ha voluto si sventrasse una parte di sé e che adesso, tra i muri che ne restano, tra le trame topografiche che ne affermano l’esistenza, avverte come la sindrome dell’arto fantasma, quella strana sensazione di persistenza di un arto dopo la sua amputazione.

Ballata per San Berillo e altri esercizi di prosa danzabile” è anche un libro curato da Simona Scattina per i tipi di Bonanno. E restituisce al lettore il senso dell’intima ricerca drammaturgica dell’attore Turi Zinna, che dedica tutto questo agli sconfitti, agli inconsapevoli. Celebrando il suo rito di emendamento del male e recapitandolo a un pubblico che, dal 2001, non manca mai all’appuntamento con la realtà sacrificata sull’altare d’una Catania imbellettata e ingannevolmente linda: la realtà di San Berillo che pure dimora sotto lo stesso cielo dei Signori, ha la stessa Sant’Agata, la stessa bellezza, le stesse insanabili ferite.

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