Il filo rosso che lega l’Italia ai suoi teatri d’opera è una storia che racconta molto di più di quel che sembra. Nel corso dei secoli i teatri sono stati il cuore della vita mondana, sociale e civile di un intero paese. Una specificità tutta italiana, che il giornalista e scrittore Alberto Mattioli racconta nel suo libro “Gran Teatro Italia. Viaggio sentimentale nel paese del melodramma”, mostrando luci e ombre di alcuni dei nostri teatri d’opera più importanti, offrendo uno spaccato su come le città hanno forgiato i loro teatri e viceversa.
“Gran Teatro Italia”. Perché un “viaggio sentimentale”?
Un viaggio sentimentale perché non è una storia accademica dei teatri italiani ma il tentativo di raccontare le specificità italiane attraverso i loro teatri, partendo dal presupposto che i teatri d’opera siano stati il centro della vita cittadina. C’è un rapporto continuo storicamente fra il teatro d’opera e la città che lo ospita e viceversa. Un discorso in gran parte personale e anche autobiografico: un viaggio sentimentale, appunto.
Nel libro lei sottolinea come l’opera sia stata un “elemento comune identitario di italianità”. È ancora così?
Oggi chiaramente non è più così, perché l’opera non è più quel fenomeno nazional popolare che identificava Gramsci. Non lo è più per ragioni storiche, perché poi sono stati inventati il cinema, meno costoso e pratico da realizzare rispetto a uno spettacolo d’opera, e la televisione. Il ruolo di catalizzatore di interesse collettivo che aveva il teatro d’opera fino alla fine dell’Ottocento è stato così assunto da altre espressioni artistiche.
Curiosamente, i teatri d’opera sono ancora un elemento fortemente identitario delle città, di sicuro meno totalizzanti di una volta, e un elemento di orgoglio.
Cosa contraddistingue il “teatro all’italiana” rispetto ai teatri all’estero?
L’opera lirica nasce in Italia come un fenomeno estremamente elitario, intellettuale e intellettualistico nella Firenze post rinascimentale. Si viene a creare però un paradosso: da uno spettacolo così difficile, complesso e costoso (dove bisogna accettare la convenzione che le persone comunichino cantando invece che parlando e in un italiano letterario complesso e in disuso) diventa un vero e proprio fenomeno popolare, sfondando qualsiasi barriera sociale, culturale e intellettuale.
L’opera ha poi avuto una diffusione capillare, dalle grandi città ai piccoli paesini. Anche grazie alle bande, che portavano l’opera, sia pure miniaturizzata, in giro per il paese. Con il tempo l’opera in Italia è diventata un patrimonio di tutti, un elemento comunitario e identitario che ha formato la coscienza nazionale.
Lei spiega come i teatri siano un nodo fondamentale per le comunità di riferimento, fino a identificarsi a volte con la città stessa. Che ruolo e quale valore aggiunto sono in grado di apportare?
Un teatro muove, anche economicamente, risorse molto importanti. È una macchina che dà lavoro a diverse centinaia di persone. L’opera è uno spettacolo estremamente complesso, che richiede diverse professionalità, molto specifiche, ben definite e anche costose. Ma è anche un formidabile moltiplicatore di indotto: muove la logistica, il turismo, fa lavorare alberghi e ristoranti, tassisti e il settore dei trasporti. Non a caso è stato uno dei grandi business italiani, capace di generare un flusso di denaro consistente e molto importante per il territorio.
Molti sono anche i teatri nelle nostre città che, per diversi motivi, hanno chiuso o sono rimasti chiusi per anni. Quali sono le conseguenze che ne derivano?
I teatri chiusi sono una grande tristezza personale. Il problema è che la frequentazione teatrale è anche una questione di abitudine: è molto facile perderla, ma è molto difficile recuperarla.
Bisogna stare molto attenti e bisogna offrire un’alternativa al pubblico, perché la cosa peggiore è interrompere quel rapporto di continuità che c’è fra l’abbonato e il suo teatro.
Quali sono i grandi miti da sfatare sui teatri d’opera, nel bene e nel male?
Un mito da sfatare assolutamente è che l’opera sia uno spettacolo classista e per vecchi: tutti i teatri hanno delle politiche per incentivare la presenza del pubblico giovanile. Anche il costo elevato dei biglietti, che pure è vero esiste, non è un alibi per non andare a teatro.
Nel secondo caso, va sfatata la leggenda che i teatri siano dei templi dell’arte in senso assoluto. L’opera è per sua stessa natura il luogo del compromesso e della “imperfezione perfetta”, perché sono troppi i tasselli che compongono questo puzzle
Nell’itinerario mancano all’appello alcuni teatri d’opera, come mai?
Ne mancano diversi e sono anche importanti, come per esempio il Carlo Felice di Genova o il Verdi di Trieste, che sono due grandi città di teatro. Come mancano i teatri di tradizione e di provincia, come il Donizetti di Bergamo o il Grande di Brescia. In realtà, il motivo per cui mancano all’appello è che si trovano in città che io non conosco abbastanza bene. Visto che questo libro parla non solo dei teatri ma anche delle città in cui sorgono, non volevo ripetere i soliti luoghi comuni legati a quei territori.
Il libro esce quasi a ridosso della sua 2000° recita d’opera da spettatore. C’è qualche teatro che vorrebbe vedere e non ha ancora visitato?
Credo di avere visto tutti i grandi teatri del mondo. Me ne manca uno, che non so se mai riuscirò a frequentare, che è l’Opera di Sydney. Un teatro che non ha una tradizione musicale di quelle irrinunciabili, però è talmente bello l’edificio, anche solamente visto da fuori, che mi piacerebbe una volta entrarci.