La premessa è che, a partire dalla sceneggiatura, passando per la scelta e la direzione del cast, la fotografia, le musiche, i titoli di coda e chiudendo il cerchio sulla locandina che, a guardarla, col senno di poi, ti si riempiono gli occhi e il cuore, “C’è ancora domani” è un film armonico nella combinazione di tutti gli elementi, esatto nella durata e nella scansione del ritmo narrativo, ingegnoso, elegante, originale, brillante, audace, in una parola perfetto. E di quella perfezione che non lascia si insinui mai il dubbio della costruzione algida, ancorché meticolosa, di una pellicola all’interno della quale agevolmente distingui la più raffinata perizia tecnica, meno l’anima che vi soggiace.
Perché “C’è ancora domani” trasuda passione, vitalità e cuore da ogni poro. E sono sentimenti, questi, che devono cinematograficamente assestarsi sul piano della misura e della cura formale, della sobrietà che ne sorvegli il rigoglio eccedente, che accondiscenda alla poesia e però interdica la retorica. Criteri ai quali non si sottrae per un solo istante Paola Cortellesi, alla sua prima regia, cui giova senz’altro l’approccio umoristico alla titanica impresa di affrescare un certo passato e coglierne i riverberi universali ed eterni, adoperando peraltro gli strumenti di un cinema e di un teatro marcatamente italiani.
È il 1946. È l’Italia del dopoguerra nei giorni antecedenti il referendum istituzionale che avrebbe decretato la nascita della Repubblica. Per la prima volta, allora, votavano le donne. Si dava loro voce, si infondeva loro forza a dispetto di una società patriarcale, maschilista, non di rado violenta, che inchiodava la donna al ruolo di moglie, madre, serva. E che gli uomini fossero poveri, ricchi o villani rifatti, tutti avrebbero certamente concordato sull’opportunità di negare alla donna, tra gli altri, il diritto sacrosanto di parola.
Con gli strumenti raffinati che guardano al cinema neorealista, come pure a certo teatro napoletano, la Cortellesi restituisce la fotografia di un mondo stremato, smarrito, e di una società diffidente che sapeva di essere a un passo dalla svolta eppure non aveva ben chiaro se davvero intendeva svoltare.
Della vastità del mondo e degli effetti sulle singole esistenze avevano dato ampia prova gli orrori delle due guerre. Le strade erano ancora presiediate dalle truppe angloamericane: era l’esotico che stava fuori dalla porta di casa. E non ci si poteva certo fidare. Poi, via via che il campo si restringeva, e tutto parallelamente diventava più familiare, ci si trovava dentro ai cortili. Lì brulicava la vita. Lì vigeva la regola della condivisione. Lì regnavano il bello e il brutto che contraddistinguono le relazioni umane.
Ma, nel fragore di voci e nella mirabile verbosità degli sguardi, lì dimorava la vita vera. E ti ci dovevi per forza rapportare. Anche quando non lo volevi. Anche quando il campo si restringeva ancora di più e tu finivi dentro quelle mura domestiche che significavano costrizione, umiliazione, botte, lacrime sempre nuove da ingoiare.
Delia, interpretata dalla stessa Cortellesi, è una donna come tante. Moglie, madre, nuora servizievole che dalla mattina alla sera si spacca la schiena per non scontentare nessuno, per fare esattamente tutto ciò che la società reputa sia un suo esclusivo dovere. Badando poco a sé e pagando a caro prezzo una disattenzione, un boccata d’aria, una caduta.
Il marito, del quale il bravo Valerio Mastrandea ci consegna quella meschinità d’animo e quella grettezza morale che non lasciano spazio a un briciolo di cristiano compatimento, nonché il suocero (Giorgio Colangeli) della povera Delia sono il retaggio di quel mondo che ci si appresta a lasciarsi alle spalle e che pure, col senno di poi, non ci si è lasciati mai alle spalle per davvero.
Paola Cortellesi ci apre la porta di casa alle prime luci dell’alba, sulle note di “Aprite le finestre” di Fiorella Bini. Una carrellata sulla violenza, sulla miseria, una pregevole ripresa dall’alto a profanare l’intimità, a trapassare come bombe i soffitti. La macchina da presa si sofferma poi sulle cose. Ché gli oggetti di una casa sanno, anche se non parlano. Ché gli oggetti custodiscono il tempo, salvaguardano la memoria.
La sceneggiatura di Furio Andreotti, Giulia Calenda e Paola Cortellesi, provvista di una forza senz’altro autonoma, trae ulteriore vigoria da una regia straordinaria che dà l’idea di giocare persino nei momenti più drammatici del film.
Ogni sequenza è costruita col chiaro intento di mettere in relazione, armonicamente o per contrasto, l’aspetto stilistico e quello semantico. Così che la tragicità di una scena di violenza domestica possa comunque godere d’una paradossale coreografia sulle note di “Nessuno” dei Musica Nuda o che il romanticismo d’un incontro fugace e senza peccato scelga di salire sulla giostra della cinepresa, dentro a quel prezioso bianco e nero che se da un lato mette in risalto le cromature dentali degne di quel tempo lì dall’altro ammorbidisce le spigolosità del mondo, l’insidiosità dei desideri.
Di contro, gli istanti più spensierati, quelli per esempio che Delia trascorre in compagnia dell’amica Marisa (Emanuela Fanelli), e che sembrano usciti dalle pagine di Brendan O’Carroll, sono attraversati dal dramma della miseria, dell’affanno, della dignità ancora da difendere. Così che tutto sia un gioco di chiaroscuri, di realtà e sogno, di faticosissimi equilibrismi sulla trave dell’esistenza. L’esistenza delle donne, s’intende.
La fotografia di Davide Leone e il montaggio di Valentina Mariani risultano oltremodo efficaci nel conciliare il linguaggio cinematografico del passato e quello del presente. Giovano alla causa di incastonare le storie nelle strade e dentro ai muri di Roma che assurge per l’occasione a metafora di un’Italia intera.
Le musiche di Lele Marchitelli, procedendo per folli voli, da Togliani a Silvestri, Concato, Dalla agli OutKast, sottraggono “C’è ancora domani” alla realtà, che pure grava sulle cose, e concorrono all’effetto straniante su cui dimostra di aver puntato Paola Cortellesi per toccare con delicatezza le corde emotive dello spettatore.
La profondità dello sguardo che si sposa, insomma, con un confortevole sorriso.
Il finale è spiazzante, illuminante. Ci si sente piccoli piccoli al solo pensiero di non averlo ipotizzato. Ed è il finale che riconsegna alla donna quanto meno parte di ciò che il mondo le ha tolto. Fuori dagli schemi, fuori dai ruoli, fuori dalla solitudine che le erigono attorno quando vogliono schiacciarla.
Io, mentre Delia cantava a bocca chiusa, ho pianto. Piangevo e ripensavo a tutte le volte in cui ho, abbiamo cantato a bocca chiusa. Con gli occhi che ridevano però. E forza e dignità e coraggio. E il rossetto da sacrificare sull’altare della nostra idea di libertà.