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Recensione “Perfect Days” di Wim Wenders

«Il cinema del regista tedesco è, nel suo insieme, un sistema filosofico. “Perfect days”, nelle sale italiane dal 4 gennaio, ne costituisce un essenziale tassello».
La recensione del film “Perfect Days”, a cura di Giusi Arimatea.

Tempo di lettura: 4 minuti

Il mondo va di corsa, il progresso scoraggia la poesia, lo sguardo sulle cose è deturpato dal disincanto. Molto spesso non sappiamo dove stiamo andando, a quale orizzonte puntare, qual è il senso del nostro viaggio. 

A portata di mano cospicui rimedi per la sopravvivenza, il miraggio della centratura come fonte di equilibrio, l’apertura al cambiamento, i segreti di una vita felice e tutta una manualistica a contenerli.

Malgrado ciò, è il senso che continua a sfuggirci. Questo benedetto senso che ci hanno insegnato a cercare nella complessità, nel clamore, nel troppo, nel pieno, nel bello, nel fruttuoso, nel computabile.

Poi però arriva Wim Wenders e in poco più di due ore ci riporta alla realtà vera, semplice che ci siamo lasciati alle spalle da quando abbiamo vantato la pretesa di modificarla, perso la capacità di adattarci, escogitato stratagemmi complicati e alimentato così la nostra frustrazione. 

Il cinema del regista tedesco è, nel suo insieme, un sistema filosofico. “Perfect days”, nelle sale italiane dal 4 gennaio, ne costituisce un essenziale tassello. 

E non è un caso la scelta di Tokyo, capitale del progresso urbanistico e tecnologico, ancorché intimamente legata alle proprie tradizioni, per affrescare i luoghi dentro ai quali trascorre il suo tempo Hirayama, il protagonista del film. 

Un mondo esemplare in virtù dei suoi contrasti e che peraltro omaggia esplicitamente il cinema di Ozu, chiudendo così il cerchio aperto con “Tokyo-Ga” nel 1985, il pellegrinaggio di Wenders nella metropoli nipponica a rievocare l’arte del grande maestro giapponese.

Per interpretare Hirayama, che porta il nome del protagonista del film “Il gusto del sakè”, l’ultimo girato da Ozu, il regista tedesco sceglie lo straordinario Kōji Yakusho, premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile, e gli assegna il compito di riflettere sui suoi occhi l’anima tersa di un personaggio che non si dimentica. 

Non servono parole. Il senso di un’esistenza qualunque abita piuttosto i silenzi di quest’uomo e si rivela nella sua disarmante autenticità, nella distensione del suo volto, nella quiete d’ogni suo gesto consueto. 

Dal mattino alla sera, quando chiude Faulkner e si abbandona ai sogni in bianco e nero, Hirayama dà prova di come ci si possa prendere cura di sé e della propria esistenza con metodo, semplicità e profonda accettazione di quello che si possiede, poco o molto che possa sembrare.

È il concetto di cura che balza agli occhi dello spettatore e permane per tutta la durata del film. Quel prendersi cura di sé e di ogni cosa vi graviti attorno: dal lavoro di pulizia nei bagni pubblici alle piantine da annaffiare, dalla mano che si porge all’altro al riguardo nei confronti d’ogni singolo oggetto, d’ogni impegno, d’ogni abitudine, d’ogni emozione, d’ogni ristoro, d’ogni fotogramma di mondo da fissare.

Compiuti i ripetuti gesti quotidiani, Hirayama oltrepassa la soglia di casa e sorride. Essere vivi pare sia una ragione valida e bastevole. Eppure nel suo caso il sorriso è di fatto corroborato da quel mucchio di passato preservato che nell’analogico delle musicassette, metafora di un tempo da custodire, anche quello con cura, rinviene ogni giorno la giusta dose di poesia. Sono gli Animals, i Velvet Underground, Otis Redding, Patti Smith, i Rolling Stones, Van Morrison, Nina Simone e naturalmente Lou Reed a costituire la playlist dei viaggi da casa a lavoro del protagonista. 

Fuori si stagliano le forme di una Tokyo che la macchina da presa fissa nella sua essenza più concreta e in quel 4:3 che, salvaguardando la riservatezza, qualcosa prudentemente sottrae al cambiamento.

Non è che Wenders – sia chiaro – abbia inteso sbarazzarsi in un sol colpo della modernità. È piuttosto l’urgenza di declinare con garbo una singola esistenza a generare il conseguente bisogno di ritrarla senza amplificarne i contorni o, peggio, trascurandone i particolari.

Mentre, da dentro, Hirayama non si lascia sfuggire la bellezza della natura, dei volti della gente, delle ombre da inseguire o rincorrere, nei minuscoli frammenti di vita ove s’arrestano le grandi questioni escatologiche e si bada unicamente a godere appieno dell’attimo.

Una macchina fotografica sempre a portata di mano, digitale anche quella. Non fosse altro che per il piacere dell’attesa prima dello sviluppo o per quello di strappare le fotografie che non dicono niente.

Il protagonista dà dunque prova di una solitudine agente in perfetta armonia col mondo. Del resto non v’è un vademecum della vita felice e l’insieme delle norme sociali non è certo un abito buono per tutte le taglie. Ciascuno è felice a modo suo. Nel pieno diritto di scegliere il proprio mondo e ritagliarvisi un posto in cui sentirsi in pace con sé stesso.

Il merito di Wenders è quello di averci permesso di spiare l’esistenza di Hirayama e di coglierne, senza alcuno sforzo, la quiete. In quel tempo unico e prescelto che è solo suo e di nessun altro e che molto esclude, ma altrettanto contiene; scandito oltretutto, nella personale cifra stilistica di Wenders, dalla potenza di immagini che narrano senza alcuna retorica la storia. 

Ed è in questa sacra e placida effigie del quotidiano, nel rigoroso svolgimento delle incombenze di Hirayama, che apprendiamo la lezione sull’utilità delle nostre mansioni, che noi e solo noi, sommessamente quanto si vuole, abbiamo il potere di riconoscere. Senza bisogno di approvazione, senza alcuna pretesa di pubbliche gratificazioni.

È la vita, credo voglia sussurrarci Wenders. Nello schema metrico del verso, più che nel verso stesso. Lì giace la comunione con l’universo scolpita sullo stupore, sulla commozione, sul sorriso di un indimenticabile Hirayama.

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