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Il sol dell'avvenire
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Il Sol dell’avvenire, un manuale d’amore per il cinema

Tempo di lettura: 4 minuti

Non si torna a casa dopo “Il sol dell’avvenire” e ci si mette a scrivere. Si ha piuttosto bisogno del tempo necessario a riviverne i fotogrammi senza la pretesa, nell’immediatezza, di un’analisi ragionata. Si ha bisogno di sentirne, col cuore, quella nostalgia d’un tempo perso per sempre che Nanni Moretti ti ha srotolato innanzi in novantacinque minuti di montagne russe emotive, calate peraltro in un paesaggio che variava ogni secondo. Si ha bisogno di guardare al cinema col disincanto sussurrato dalla pellicola per poi lentamente tornare a quel sol dell’avvenire che ti fa ancora sperare nel domani.

Dopo “Tre piani” non è che fossi molto smaniosa di incontrare nuovamente Moretti. Come del resto comprendo che Moretti ad alcuni possa non piacere: un regista per nulla conciliante politicamente, un attore sui generis a voler essere generosi, un artista senz’altro scomodo e d’un sarcasmo non universalmente benaccetto.

“Il sol dell’avvenire” mi ha però restituito un Moretti diverso. Un Moretti che sui titoli di coda, se lo avessi avuto davanti, avrei volentieri abbracciato. Come si fa con un amico di vecchia data col quale ti sei perso di vista per una trentina d’anni.

Io e lui, del resto, condividiamo l’amore per il cinema, la nostalgia per quel tempo manicheo e intransigente in cui si stava da una parte o dall’altra, la necessità di rivisitare il passato e sottrarlo alla polvere dei giorni, della lettura comoda, dei tanti particolari convenientemente taciuti. E condividiamo pure la necessità di rompere gli schemi, di far partire la musica e ballarci e cantarci sopra. Come se il mondo potesse finire lì.

E che io e Moretti condividessimo tutto questo, e molto altro ancora, l’ho capito solo adesso. Mi occorreva dunque incontrare un Moretti più simile a me, magnificamente umano, alla mano, quasi amabile. Alla soglia dei settant’anni ci si può evidentemente permettere di indossare gli abiti da casa girando per le strade del centro cittadino. 

“Il sol dell’avvenire”, a volerne restituire una trama di massima, narra la storia di un regista (Nanni Moretti) che si dedica al suo nuovo film.  A produrlo è la moglie (Margherita Buy), alle prese a sua volta con la produzione di un film di altri e alquanto lontano dal sentire cinematografico del marito. 

Si accavallano i piani: la trama del film di Giovanni (i riverberi della rivoluzione ungherese del 1956 in una sezione del Partito Comunista Italiano) si intreccia a quella della propria esistenza. E qui c’è tutto l’universo che da soli ci si crea, a detrimento della vita di chi ci sta accanto. Ci sono i sogni che impattano sulla realtà. C’è un mondo che va avanti mentre noi restiamo fermi, a ragionare sul finale. C’è il circo della società capitalista, buona solo a monetizzare la violenza, mentre a noi scorrono innanzi agli occhi le immagini del circo che fu, quello di felliniana memoria. Ci sono le pellicole in bianco e nero, i brani che ci hanno fatto innamorare. E ci sono i consigli che a una certa età possiamo dispensare ai giovani che ci vogliono ascoltare.

Il miracolo compiuto da Moretti è aver racchiuso tutto questo, declinandolo in universi paralleli un po’ démodé, in una pellicola di soli novantacinque minuti che è un manuale d’amore e di cinema, o meglio d’amore per il cinema. Senza alcuna pretesa profetica.

Semmai con il timido e accorato sguardo sulle cose quando non ci si rassegna all’idea di lasciarle andare come altri vogliono che vadano.

Una ragione in più per fermare i volti di chi ha camminato al nostro fianco, di chi può condividere tanto certa malinconia quanto la scelta di non rinunciare, costasse persino la fatica di dover cambiare l’ultima scena. 

Tutto il cast del film, con Silvio Orlando e Barbora Bobuľová in prima linea e le felici partecipazioni di Renzo Piano e Corrado Augias, ha il merito di aver contribuito a scrivere una preziosa pagina di storia del cinema, a confezionare la quale non sono certo mancati i riferimenti illustri: da Fellini a Demy, Perry, Landis, Cassavetes, i fratelli Taviani e il buon Kieslowski di cui Moretti richiama “Breve film sull’uccidere” per la sua lectio magistralis sul cinema e sulla violenza.

Di questo splendido “Il sol dell’avvenire” occorre rimarcare, inoltre, la forza di una sceneggiatura (di Francesca Marciano, Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santelli) che sa capitalizzare un’idea di partenza dissennata e disciplinarla dentro perimetri che sanno allargarsi e restringersi all’occorrenza, duttili e accomodanti come coloratissimi Barbapapà.

E si rimarca, ancora, la maestosità di dialoghi solo all’apparenza strampalati, con quelle mezze frasi che rimangono sospese, lasciando intravedere una caterva di mondi possibili disposti a replicare. Salvo poi tacere, però.

Si rimarca la fotografia di Michele D’Attanasio: illuminata anche quando si presta al sottile gioco del trova l’intruso. Cinema dentro al cinema. Tutte immagini cromaticamente in sintonia con la coperta di Giovanni che guarda “Lola” sul divano di casa.  

Si assegnano tutti i meriti del caso a Franco Piersanti. La sua colonna sonora, inframmezzata da un Tenco o da un De André o da un Battiato o da una Noemi che inaspettatamente non sfigura, ha scortato con grande eleganza e deferenza questo film che tutto, ma proprio tutto, contiene e nulla intendeva lasciare prevaricasse.

Ogni tanto, a guardarlo “Il sol dell’avvenire”, si ride. Ogni tanto ci si commuove. Quasi sempre si ride e ci si commuove al contempo.

Tenco su “La dolce vita” è poesia. E io quella scena potrei guardarla un milione di volte e commuovermi ogni volta.

Quando, poi, tra la folla che marcia lungo via dei Fori Imperiali, tra bandiere rosse e l’effigie di Trotsky, scorgi Anna Bonaiuto, Dario Cantarelli, Renato Carpentieri, Elio De Capitani, Giulia Lazzarini, Claudio Morganti, Alfonso Santagata, Gigio Morra, Lina Sastri, Fabio Traversa, Alba Rohrwacher, Hasmine Trinca, Mariella Valentini e Silvia Nono pensi che, in cinquant’anni di cinema morettiano, dal primo cortometraggio a oggi, tutto quel che è accaduto doveva accadere per tornare lì. A chiudere finalmente il cerchio sui sorrisi familiari, a sentire i passi che calcano la medesima strada che noi ogni giorno percorriamo, a tener presente le storture d’un tempo e d’un mondo maledettamente imperfetti e, puntando il sol dell’avvenire, dedicar loro il sogno di una utopia ancora possibile. 

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