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"Medea" da Euripide, regia di Leonardo Lidi - Foto di Luigi De Palma - In scena Nicola Pannelli, Orietta Notari, Alfonso De Vreese, Valentina Picello

Teatro

Leonardo Lidi: «Racconto la storia di Medea, tra amore e peccato»

Tempo di lettura: 3 minuti

«Nel mio percorso ho affrontato tanti classici importanti, quindi sono ben allenato a far sì che le gambe non tremino troppo quando sono davanti ai grandi autori»Leonardo Lidi conosce bene il peso e la responsabilità che comporta mettere in scena i grandi classici teatrali. Dal 2 al 21 aprile torna alle Fonderie Limone Moncalieri alla regia di una nuova produzione, in prima nazionale, della “Medea” da Euripide, prodotta dal Teatro Stabile di Torino.

Nella parte della protagonista Orietta Notari, affiancata in scena da Nicola Pannelli, Valentina Picello, Lorenzo Bartoli, Alfonso De Vreese e Marta Malvestiti.

La Medea da Euripide. Che sfida rappresenta affrontare un grande classico come questo?

«La sfida è trovare delle assonanze tra la storia in scena e il presente, per far sì che questa unione abbia un senso e quindi fornire allo spettatore delle connessioni tra quello che vede e quello che vive. Medea è un testo molto crudo, scorretto e provocatorio, ma è anche un testo che ci parla dell’amore e della sua follia, e di una donna che soffre molto per un abbandono, fino a reagire in modo totalmente impensabile. È un testo che racconta le sfaccettature dell’umano a 360 gradi, molto lontane e al tempo stesse molto attuali».

Amore e sofferenza sono le due anime che abitano il cuore di Medea. Come viene evidenziato questo contrasto?

«Un lavoro importante per me è stato quello di non fermarsi al finale. È ovvio che quando una persona si macchia di un crimine così atroce il suo nome e la sua storia vengono tormentati da questo peccato. Ma Medea ha un passato precedente a tutto questo. È une persona che ha fatto un viaggio per amore e quello che mi interessa è proprio raccontare la sua storia e quella della sua famiglia. Il teatro non può e non deve fermarsi all’accaduto ma andare sempre nel profondo, perché è quello che la tragedia ci chiede. Raccontare questa donna e la sua vicenda, cercando di empatizzare con questo personaggio, che viene rappresentata sempre come una figura forte, violenta e criminale e quindi impossibile da comprendere».

Cosa dobbiamo aspettarci da questa regia?

«Agli attori io chiedo sempre una grande sincerità nell’artificio del teatro, che è anche una cosa che può sembrare strana. La peculiarità di questa regia è stato proprio soffermarsi su un’idea quasi romantica di questa storia, tantoché questa Medea arriva da una trilogia che in questo triennio, con il Teatro Stabile di Torino, ho avviato rispetto ai grandi classici. Medea sotto la lente dell’amore è quello che ci si dovrà aspettare e credo che in questo spettacolo il pubblico si potrà emozionare e, forse, sorprendere».

Nella sua nota di regia descrive il rapporto con lo Stabile di Torino come una mappa. Dove l’ha portata?

«Prima di tutto a un’emancipazione e una crescita personale, che si realizza a ogni regia, tappa dopo tappa, e che è fatta sempre più di domande e meno di risposte. Credo che la cultura, e il teatro in particolare, serva proprio a generare continui interrogativi che possano farci crescere come esseri umani.

Questo percorso, che descrivevo come una mappa, è quello che cerco di fare anche con lo spettatore, trasformandolo in un viaggio collettivo. Il pubblico sta reagendo bene alle proposte che presentiamo e sono molto felice di farlo anche attraverso i grandi classici, come Medea di Euripide, perché così chiunque avrà la possibilità di rivedere e ri-apprezzare questi testi, che hanno ancora tanto da dire e da raccontarci».

E il suo rapporto con la città?

«Sono arrivato a Torino 15 anni fa come studente della scuola del Teatro Stabile di Torino. Sono passato dall’altra parte dei banchi e adesso sono legato allo Stabile da un rapporto professionale di cui sono molto orgoglioso e con cui andremo avanti nei prossimi anni, con l’idea di investire in questo teatro e in questa città, puntando sul pubblico e rischiando, di tanto in tanto, con nuovi linguaggi e nuove drammaturgie.

Torino è una città che mi ha accolto, dove mi trovo molto bene, e dove mi sono trasferito in pianta stabile da tanti anni. È una città molto attenta alla cultura, e per una persona che fa il regista o l’attore è veramente fondamentale rendersi conto di essere in uno dei centri più belli d’Europa». 

Lei ha dichiarato che all’inizio di questo triennio di lavoro aveva un obiettivo: “scacciare la paura delle emozioni”. Che cosa significa?

«Significa che gli eventi, il boom tecnologico e la pandemia ci hanno richiesto ed educato a una certa distanza, che è diventata anche una distanza emotiva.
Siamo sempre connessi, ma contemporaneamente siamo anche distanti. Lo stesso accade nelle relazioni sentimentali, così come in quelle di lavoro.
In un momento in cui la distanza non è più necessaria, dovremmo sfruttare la possibilità che ci dà il teatro, come luogo unico dove poterci guardare negli occhi a telefonini spenti, di condividere dei pensieri attraverso le emozioni. E di questo non dobbiamo più avere paura».

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