Presentato a Venezia e uscito il 23 febbraio nelle sale italiane, “The Whale” del regista statunitense Darren Aronofsky sta ottenendo grandi risultati al botteghino e un numero considerevole di riconoscimenti.
Si tratta dell’adattamento cinematografico dell’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter. E della drammaturgia il film conserva i tempi, l’unità spaziale, il ritmo e varie altre peculiarità.
Insomma, sarebbe stata un’operazione perfetta se Aronofsky, contando peraltro su uno straordinario Brendan Fraser nei panni del protagonista, avesse personalmente lavorato, e con audacia, sul testo, adattandolo al cinema, a quel cinema cui non giova scavare a piene mani nel melodramma, inseguire l’enfasi, talora la retorica, per esaltare le polarizzazioni più o meno sfumate degli umani contrasti.
“The Whale” mi ha rammentato quanto vano sia il profluvio di parole, l’insistenza della macchina da presa sull’anomalia, sulla compulsione, sul disagio.
Di Charlie, professore obeso giunto immobile al capolinea di un’esistenza falcidiata dal dolore, avrei anche potuto vedere meno, molto meno. Non mi sono giovati granché i tentativi faticosi di spostarsi, di recuperare gli oggetti, di ingurgitare il cibo senza soffocare. Avrei potuto e avrei voluto vedere meno. E non perché certe scene mi abbiano particolarmente disturbata. Non per un’eticità che nulla dovrebbe mai avere a che fare con la grammatica cinematografica. Più semplicemente, molto di ciò che ho visto l’ho reputato superfluo, in alcuni passaggi forzato, ai limiti del grottesco.
I personaggi che ruotavano attorno al povero Charlie mi sono sembrati essi stessi caricature di un universo iperbolico, poco credibile, ove ciascuno sembrava costretto alla propria parte. La figlia da redimere (Sadie Sink), il giovane redento (Ty Simpkins), la moglie alcolista e alla lunga misericordiosa (Samantha Morton), l’amica infermiera (Hong Chau). Il tutto raccolto e riconvertito nel magma delle metafore prêt-à-porter elargite da Herman Melville.
Dell’universo claustrofobico di Charlie io ne ho sentito il tanfo. Qualche volta mi è persino mancato il respiro. Aronofsky, che si muove agilmente tra il surrealismo e il dramma a sfondo psicologico, ha catapultato lo spettatore dentro all’abitazione di Charlie. E ci sarebbe comunque riuscito anche senza calcare la mano sulla catastrofe o, perché no, affiancando Hunter nel ruolo di sceneggiatore.
Aronofsky aveva già trattato, e senza andare troppo per il sottile, il tema complesso delle dipendenze. Nel consegnarci un Charlie prigioniero del proprio passato e del proprio corpo, è quindi consapevole di smuovere financo le acque delle anime più chete. Ci si addentra così nelle zone paludose dell’emotività personale: compassione, rabbia, empatia, tristezza. Non si spiegherebbero altrimenti gli occhi lucidi di taluni o il disappunto di tal’altri sui titoli di coda di una pellicola che spacca letteralmente in due il pubblico.
Vi sono tuttavia dei punti fermi sui quali ragionare: la maestosità attoriale del protagonista, la qualità innegabile della confezione di un prodotto cinematografico che non è certo concepito per pochi addetti ai lavori, l’eleganza della scrittura che se ti immagini a teatro acquista una potenza straordinaria, i temi trattati e la capacità di servirli visivamente, senza troppe acrobazie stilistiche ma con una onestà sulla quale, al netto di eccessi e forzature, sarei pronta a scommettere.
Che poi a tutto ciò si giunga arenandosi qua e là nella retorica di certi dialoghi, nel ridondante e voluttuario impiego di certe figure caricate più che provviste di vero spessore è altrettanto plausibile, ove mai ci si addentri in un’analisi a trecentosessanta gradi.
“The Whale” può insomma piacere o non piacere, può commuovere, turbare, irritare e persino lasciare indifferenti, ma non è un film da buttar via, come non è un capolavoro.
I sei minuti di applausi a Venezia forse sono troppi. Ne sarebbero bastati tre, a voler essere generosi.