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America Latina dei f.lli D’Innocenzo

Tempo di lettura: 4 minuti

Dopo “La terra dell’abbastanza” e “Favolacce” i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo continuano a giocare i loro novanta minuti di calcio, rigorosamente freestyle, con il film “America Latina”, presentato in concorso a Venezia 78 e uscito nelle sale il 13 gennaio.

Lo stile registico dei gemelli romani

Siamo dentro ai confini del genere, il thriller precisamente, cui per fortuna non manca di guardare certa cinematografia italiana. È tuttavia degno di particolare attenzione lo stile registico dei gemelli romani classe ’88 che si affidano ancora una volta a Elio Germano e danno l’idea di spassarsela con la macchina da presa, persino compensando la lieve cagionevolezza d’una sceneggiatura – a essere generosi -prudente.

Fatta eccezione per i campi lunghi che scolpiscono i radi esterni, “America Latina” è un film per lo più giocato su primissimi piani con inquadrature ad angolo giro da procurare vertigini. E nelle sequenze ove a Elio Germano si accostano altri, fossero indifferentemente soggetti o oggetti, restano fuori fuoco i depositari dei silenzi: un linguaggio cinematografico, quello dei fratelli D’Innocenzo, che merita senz’altro attenzione. Per estro, perizia, originalità.

La trama

Posto che “America Latina” si debba guardare senza essersi troppo istruiti sulla trama, qui s’intende dar conto appena della presenza di Massimo Sisti, un dentista di Latina (Elio Germano) che trascorre un’esistenza apparentemente lineare e borghese. Una moglie amorevole (Astrid Casali), due figlie beneducate (Carlotta Gamba e Federica Pala) e un amico (Maurizio Lastrico) con cui bere una birra, misurando a dispetto dell’alcol le confidenze. Il quadretto è insomma confortevole, rassicurante. Solo il respiro del protagonista, in mezzo a tanta sospetta perfezione, lascia talora presagire una certa inquietudine. Dalle rigorose geometrie, villa Sisti è dipinta di bianco e azzurro. Le scale a mo’ di scivolo. Torbida è solo l’acqua della piscina: un indizio, un presentimento. La discesa agli inferi di fatto coincide con l’ingresso del protagonista nella cantina interrata, dentro la quale si cela un terribile segreto.

Ombre, incubi, visioni

Da quel momento la pellicola si assesta sul piano cartesiano della mente di Massimo, provvisto d’una particolare sensibilità e avvezzo, come usualmente non si confà agli uomini, al pianto. Sono ombre, incubi, visioni. Le alterazioni del suo stato psicofisico procedono parallelamente all’abuso dell’alcol e dei farmaci antidepressivi. Un incontro fugace col padre parrebbe legittimare la sofferenza, ma non basta. Non può bastare.  Lo spettatore, grazie anche al mirabile uso della macchina da presa dei fratelli D’Innocenzo e talora scortato dalle straordinarie musiche dei Verdena, resta via via impigliato nelle maglie psichiche di un Elio Germano magnifico e messo a nudo. Non distingue il protagonista quella realtà che si cela dietro il routinario defluire dell’esistenza, che gli sfugge di mano, che apre un profondo vortice e spazza via ogni parvenza di equilibrio.

Una galleria di immagini potenti

In una dimensione ipnotica ripugnante e al contempo magnetica, mutano i rapporti tra il protagonista e il mondo, fatto di cose e persone. Torna in mente la lampadina fulminata di quando tutto sembrava ghermire la perfezione e ora risulta il primo corto circuito d’una oggettività evidentemente malferma. Quel che avviene, dopo la cantina, è dunque la proiezione mentale del protagonista costruita attraverso una galleria di immagini potenti, orfane molto spesso delle parole. Occorre soffermarsi sui cospicui dettagli, corroborati dalla preziosa fotografia di Paolo Carnera e ad arte disseminati per tentare di ricomporre il caos. Persino il taglio di una crostata, tra il rumore fastidioso della masticazione, diventa un’occasione per quella funambolica regia che intende stanare il dramma nell’ordinario.

Reiteratamente Elio Germano è ripreso da dietro un vetro: si entra così, secondo la lezione dei D’Innocenzo, dentro le mura domestiche dell’individuo, come fossero cantine. E lì non si può che scorgerne le insulsaggini, le fragilità, le miserie. Lì regnano le ombre. 

L’horror a portata di mano

Lungi dal rivelare cosa si celi nella cantina di villa Sisti, è tuttavia opportuno evidenziare la bellezza di quel che accade lì dentro. Una bellezza di gradazioni cromatiche, di equilibrismi registici, spregiudicatezze formali, trovate acutissime e di forte impatto visivo. Una bellezza che risiede, tra le altre cose, anche nel talento della nouvelle Linda Blair Sara Ciocca. Raccapriccianti le sue grida, eccezionale la sua maniera di bere l’acqua e di ruttare un attimo dopo. In cantina l’horror è davvero a portata di mano.

Il titolo, tra sogno e realtà

Spiazzante il titolo di questa pellicola che solo in prossimità dei titoli di coda si decide a schiudere le porte sulla vera realtà. Quella Latina appunto, dal comune laziale in cui si svolge la vicenda. Un luogo sbagliato che rigurgita umide terre di nessuno. Quella sulla quale sanno adagiarsi quiete apparente e malcelato orrore. Poi c’è l’America: il sogno, la rappresentazione. Due facce di quella medesima medaglia che è l’esistenza. Non possiamo pretendere di controllarla, talmente frangibili sono i punti fermi sui quali ci illudiamo di costruirla. Guardiamo gli altri e non li conosciamo, non li riconosciamo. Noi stessi verosimilmente non sappiamo chi siamo.

L’aspra e irregolare angolazione della macchina da presa non poteva rendere meglio di così quel mulinello di allucinazioni e precarie arbitrarie verità che sa essere la vita.

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