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Foto da ufficio stampa Franco Parenti di Milano

Teatro

“Ion”: il teatro come evasione dalla gabbia della repressione della libertà

Tempo di lettura: 3 minuti

“Cosa accade quando un essere umano viene lasciato da solo nel silenzio della propria famiglia? Una famiglia ottusa e all’antica”. Da questa premessa nasce “Ion”: un testo inedito, elaborato dal drammaturgo Dino Lopardo, tratto da una storia realmente accaduta, condivisa con gli stessi attori. Un racconto che approfondisce il tema del diverso, del disadattamento e del pregiudizio sociale, prodotto da Gommalacca Teatro, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 12 al 17 marzo, con Iole Franco, Lorenzo Garufo e Alfredo Tortorelli.

Lo spettacolo si chiama “Ion”: come nasce questo nome?

«È un titolo che incuriosisce. Tutti mi chiedono se derivi dal greco o dal latino, o se sia “noi” al contrario. In realtà nasce da una dimensione che mi appartiene molto, avendo fatto anche un percorso da musicista, ovvero quella sonora.
Eravamo in prova, in questo spazio con un grande riverbero. Lo spettacolo parte con una discussione tra due fratelli, che riveste poi la figura del padre e che continua a ripetere per tutto lo spettacolo “è malato”. Nell’ultima battuta pronuncia “è ricchion” e in sala si viene a creare questo eco delle ultime tre lettere. Il titolo è un suono dell’ultima battuta, che è anche l’essenza dello spettacolo».

C’è questa immagine della gabbia nello spettacolo. Cosa significa?

«Il filo conduttore è questa gabbia, che identifica sia la famiglia che l’intera società. I due fratelli nella storia vengono molto condizionati dalla figura paterna, che non accetta la libertà e la diversità dei figli. La struttura diventa così anche una gabbia mentale, che è condizionata dalla società, dalla famiglia bigotta che non ti lascia esprimere e uscire fuori da questa prigione. E l’unica valvola di sfogo e modo per evadere di Giovanni, uno dei due fratelli, diventa la poesia. La gabbia diventa così sia un elemento fisico che metafisico».

Com’è nata la storia di questa famiglia e di questa gabbia che la opprime?

«È una storia che non è nata da me, ma da uno degli attori con cui lavoravo: Andrea Tosi. Voleva lavorare sul tema della diversità e dell’omosessualità. Da lì abbiamo ragionato, con delle improvvisazioni guidate, sugli stimoli e sulle esigenze che avevano tutti gli altri attori, oltre alle mie ovviamente. Io ho avuto il ruolo di concertare la storia».

Come si gestisce poi questo flusso di stimoli?

«Parto sempre da un esercizio quando c’è un gruppo che vuole lavorare su un tema specifico. È l’esercizio delle tre lettere. Carta e penna alla mano, faccio scrivere agli attori un flusso che parte dalla pancia, per vomitare delle parole su un foglio di carta. La prima è una lettera di insulti, mentre la seconda è una risposta, bisogna mettersi nei panni della persona che ha ricevuto gli insulti. La terza è una lettera risolutiva, dove ritorna il primo “autore”, a cui faccio scrivere cosa avrebbe voluto sentirsi dire realmente dalla persona offesa. Con questo gioco si evidenziano le diverse sfaccettature dei personaggi, compresi i loro difetti.
Il conflitto è un elemento che dal punto di vista drammaturgico porta già a una narrazione. E questo spettacolo è nato nello stesso modo».

Anche la fisicità della gabbia è nata in questo modo?

«L’esercizio delle lettere aiuta ad elaborare anche la dimensione spaziale, ovvero l’arena dove queste storie prendono vita. Le scenografie sono parte integrante dello spettacolo; devono parlare, non essere un contorno o un dipinto sullo sfondo.
Io stesso prendo parte alla costruzione di queste scene. Per la gabbia siamo andati in officina con gli attori, volevo renderli partecipi della costruzione di questo oggetto, perché sono loro che poi ci dovranno interagire sulla scena. La gabbia diventa un po’ la loro casa.
Infine c’è la luce, che gioca un altro ruolo importante. Non viene inserito come elemento alla fine del montaggio, ma sperimento con fonti illuminotecniche, anche diverse e non convenzionali per il teatro, proprio mentre costruisco lo spettacolo».

Il tema della diversità è un tema molto importante, soprattutto tra i più giovani

«In questi giorni stiamo portando due nostri spettacoli nelle scuole, proprio per parlare ai giovani. In Basilicata abbiamo fatto di recente una restituzione per una scuola di teatro e una matinée con alcune classi di un liceo. È stato un po’ un esperimento e abbiamo notato con stupore che i ragazzi sono rimasti colpiti. Quindi abbiamo deciso di riproporre anche un altro spettacolo, che trasversalmente parla di bullismo, ed è molto attuale per questa fascia d’età.
Alcuni presidi e insegnanti ci hanno confessato che solitamente i ragazzi a scuola si annoiano; invece, forse la vicinanza con questi temi e la freschezza della messa in scena li hanno colpiti molto».

“Ion” è una produzione Gommalacca Teatro, realizzata in collaborazione all’allestimento Collettivo Itaca/Dino Lopardo. Il sostegno all’allestimento è di Città delle Cento Scale Festival – Nostos Teatro.

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